Drammatico

STORYTELLING

TRAMA

Fiction: una studentessa bianca, il suo ragazzo, paralitico cerebrale, il loro professore nero. Non fiction: un liceale, la sua famiglia, una domestica, un documentarista.

RECENSIONI


Mette i brividi questo nuovo film di Solondz, mette i brividi una visione così sconsolata eppure (l'avvertiamo come tale) precisa dei fatti della vita. Dopo il terrificante (non è un giudizio di valore sia chiaro, è un dato di fatto) Happiness, il regista, sul consueto registro acerimmo, divide il nuovo film in due episodi (ne esisteva un terzo, ma è stato eliminato). Il primo (Fiction) è un breve e perfetto apologo di crudeltà mentale, asciutto e stordente: l'opera non fa niente per rendere più guardabile il mondo che rappresenta, avanza con toni da commedia acida e pervertisce in vergogna il nostro ridere. "Fuck me nigger, fuck me hard" ansima il professore di scrittura creativa alla sua alunna mentre la sodomizza contro una parete e Solondz sbatte le nostre facce al muro del buonismo e della facile denuncia. Ma il meglio deve arrivare: l'episodio è realtà (nella finzione filmica) che si fa finzione (meta)narrativa; l'esperienza sessuale diviene infatti una novella che la ragazza presenterà in classe al professore stesso che, imperturbabile, giudicherà il componimento mediocre. Questo primo segmento, scorretto come tutto il cinema dell'autore (ma l'intero film si propone come un saggio sulle possibilità e i risultati del narrar scorretto), è un piccolo, avvilente capolavoro in cui, genialmente, Solondz pare mettere in scena testo e critica dello stesso. Il secondo episodio (Nonfiction) ripropone un tranquillo inferno familiare, di quelli che il Nostro ha dimostrato di saper descrivere come nessun altro (e la parodia di American beauty è dichiarata e massimamente critica), nel quale si introduce un documentarista che ne farà un indiretto ritratto (il soggetto principale è il figlio sul punto di entrare al college). Ancora una volta l'autore predilige l'affresco corale, evitando saggiamente l'immedesimazione dello spettatore, piuttosto conducendolo a un atteggiamento di egualitario fastidio nei confronti di ciò che viene rappresentato. Meno incisiva della prima, e forse, soprattutto conoscendo la già definita poetica del regista (Fuga dalla scuola media: l'amara precisione del dolore), un po' piu prevedibile e manierata, questa parte reca in sé elementi e toni che ormai possiamo definire a giusto titolo "solondziani": basti per tutte la figura del figlio più piccolo, fiero rompipalle, che si sente trascurato dai genitori, interroga la domestica sulla sua felicità (ma considera la donna poco più di una schiava) e ipnotizza il padre onde indurlo a dedicargli quell'attenzione che sente negatagli. E non tratteniamo il raccapriccio quando, in quella che sarà una notte fatale, il piccolo chiede di dormire nel lettone dei genitori. Il padre (un sempre splendido John Goodman) lo salva dai mostri degli incubi, accogliendolo nel rifugio più mostruoso di tutti, il nido più intimo della Famiglia. Un film di scrittura sullo scrivere storie (e in ciò inevitabilmente autoriflessivo) questo Storytelling, in cui Solondz, confermando una grande abilità nello sceneggiare, sembra meno interessato all'organizzazione della messinscena che in apparenza si risolve in una scarna illustrazione delle sue ciniche sciarade letterarie. Ma questa essenziale scelta stilistica si può ricollegare all'intento dell'autore di assumere uno sguardo neutro, distaccato, di rassegnazione, che oserei definire universale, nei confronti delle vicende narrate. Colore, vividezza e invenzione visiva le si riservano soltanto alla splendida semplicità dei titoli di testa (le suggestioni musicali sono affidate a Belle & Sebastian) che rendono ancora più cupo il quadro che va a seguire. Domina in ogni fotogramma, dunque, l'umido lividore della sconfitta esistenziale: non c'è accusa o raccapriccio nei confronti di questi personaggi, essi sembrano non avere colpa del loro esser meschini, vittime di un avverso destino che li rende tali. La conclusione che si trae dalla visione di questo come dei precedenti, scomodissimi film dell'americano è sempre la stessa: la vita è una merda. Ma stavolta l'atto conclusivo, terroristico e vendicativo, reca in sé qualche germe di speranza; una prospettiva di rivalsa e giustizia finale, per quanto sommaria, che ci concede il lusso di un respiro più leggero.