Drammatico

SPECCHIO MAGICO

Titolo OriginaleEspelho Magico
NazionePortogallo
Anno Produzione2005
Durata137'
Sceneggiatura
Tratto daliberamente tratto dal romanzo A Alma dos Ricos di Augustina Bessa-Luis
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Luciano, appena uscito di prigione, presta servizio alla ricca Donna Alfreda; questa è ossessionata dall’idea di vedere la Vergine Maria._x000D_

RECENSIONI


Esce in piena estate, a cura di Mikado, una delle prove maggiori di Manoel De Oliveira negli ultimi anni. La nascita è più drammatica della morte, si afferma in Espelho Magico: acquisito questo “principio dell’incertezza”, che copre l’intero arco dell’esistenza umana, il film si nutre di accadimenti apparentemente naturali e li riveste di letture molteplici e stratificate. Eventi ordinari, che possono sembrare meravigliosi o riflettere la meraviglia di chi guarda. Dalle origini dell’uomo ai nostri giorni, l’opera è una matassa dialogica da sbrogliare con cura: servita da fluviali e piani sequenza che richiedono particolare recitazione degli attori - sconcertante il dialogo di Ricardo Trepa con il direttore del penitenziario –, la storia è incentrata sulla costruzione del falso idolo (quale idolo non lo è?), il travisamento di realtà costituite, la possibilità del dubbio che arriva a discutere perfino sé stesso. Basti vedere la sequenza emblematica in cui si svela la figura di Donna Alfreda: inizialmente caratterizzata per le sue ossessioni, essa accoglie un filamento chiaro che si posa delicatamente sul suo abito. Resti di pulviscolo o brandello della veste della Vergine? Ecco il nocciolo di un film che afferma e mette in dubbio, che non tratta la religione nello specifico ma l’influenza del dogma sulla condizione umana: marito e moglie non intrattengono rapporti, lei applicata al sacro e lui alla musica, chiusi in rispettive gabbie. Si incontrano in un’unica occasione: la donna scivola in coma e l’uomo l’accompagna nei luoghi amati, convinto che lei non possa vedere, mentre l’occhio mentale, quasi nabokoviano, registra ogni minimo dettaglio e lo proietta su uno specchio che è lo schermo, una delle sequenze più struggenti del maestro portoghese.
Il cineasta prende il tempo che vuole, prepara svolte narrative che non avvengono (la finta apparizione) e dimostra l’ennesimo disinteresse verso il codice consolidato: è un cinema nudo e disadorno, sempre più brullo e ischeletrito, che conosce bene la costruzione dell’immagine ma con la stessa felicità espressiva sviscera la polpa della sostanza. E' sempre insostituibile il potere della parola: il processo dialettico afferma continuamente l’egotismo paradossale della razza umana – qui si vuole vedere la Madonna solo per solitudine – e lo stempera con momenti di squisita ironia, come il monologo della serva che discetta allo specchio sulla centralità dell’Io. Il film contiene tanti, splendidi quadri visivi: i ralenti “miracolosi” che costellano il narrato, Luciano in controluce al tramonto (il confronto schiacciante uomo/natura) e soprattutto la bellissima scena finale, una repentina successione di immagini, dense di significato, che si concludono nel volto di un bambino. L’instabilità, l’oscillazione, il mistero della vita ricomincia.


Di lievità e profondità straordinarie, l’ultima fatica del regista portoghese è una sorta di scherzo rococò in tre tempi ruotante attorno alla fulgida musa Leonor Silveira, ricca aspirante veggente, e ad un gruppuscolo di ambigui figuri dostoevskjiani che prima di essere personaggi sono portatori di “filosofie morali”, poi forze agenti di un racconto piano e dilatato, infine mesti cantori di un lamento funebre che accompagna, forse, il tramonto del sacro e, insieme, la riaffermazione forte dell’uomo (lo sguardo in macchina, il sorriso del bambino nella penultima inquadratura sembra fare il paio con l’“occhio eterno” che chiude il cinema di Monteiro). Tutto ambientato nella villa/mangiatoia, il film si configura, inizialmente, come una sorta di saggio polifonico attorno ai “misteri della fede”, alla colpa e alla redenzione, alla rabbia ed al perdono; gradualmente, si trasforma in un abbozzo di commedia morale dell’inganno, dai toni addirittura buñueliani; l’ultima parte, concentrandosi sul dolore rappreso e sublimato causato dalla maternità impossibile della giovane protagonista, ripropone il tema centrale della “riflessione”, della visione, della veggenza, collegando l’ossessione dell’apparizione ultraterrena all’occhio cinematografico e alla sua capacità di conferire materia a sogni incorporei: il vedere vedersi, il ri-conoscersi, il cogliersi parte del tutto e sentirsi piccola cosa in rapporto al tutto, pare suggerire il regista, è il miracolo più grande, che il cinema/specchio magico soltanto può realizzare. Nello specchio/cinema, la sofferente protagonista ri-vede il passato (il vedere è un ri-percorrersi) e ritrova, prima della morte, se stessa, scoprendo di aver ricercato vanamente nel soprannaturale un senso che aveva racchiuso nel profondo e che chiedeva soltanto di essere “liberato” nella visione.