Drammatico

SIGNORINA EFFE

TRAMA

Sullo sfondo. Torino 1980, la Fiat annuncia 15.000 esuberi e scoppia la protesta: 35 giorni di sciopero, l’azienda in ginocchio, quindi l’accordo con i sindacati. _x000D_
In primo piano. Emma, impiegata del reparto informatico e laureanda in matematica, è la donna di un dirigente ma si avvicina a Sergio, operaio alle presse di origini umili, coinvolto nella mobilitazione. _x000D_

RECENSIONI


Il nostro cinema “ufficiale”, quello realizzato con i contributi pubblici, torna a giocare con la recente storia politica: dopo Lavorare con lentezza (Bologna ‘76), dopo Mio fratello è figlio unico (Italia ‘60/70), anche Wilma Labate si applica a nodi complessi – tuttora irrisolti - e prova a scioglierli attraverso la loro impaginazione figurativa. Ruotano gli scenari, i volti (non tutti), i contorni e le implicazioni; ma ogni numero moltiplicato per zero resta zero e il risultato fatalmente non cambia.
Il primo, paradossale problema è la scelta della non-rappresentazione, riepilogabile nel filmato d’epoca. Tratteggiare le contingenze pubbliche attraverso volti sintomatici, persone/metonimie di situazioni, non ricostruire ma riproporre: i notiziari coevi, le assemblee di fabbrica, le posizioni sindacali, la linea del Pci vengono dunque mostrate. Nessuna traslazione, tutto è detto. Ma non c’è docu-film: raggirando la prova della descrizione l’opera infatti, in una soluzione ibrida, si procura di restare nella finzione. E siamo al secondo dilemma: questa, spersonalizzata dalla regia assente, tappa il naso al sapore del vero. Nella vicenda Fiat, punto di sutura tra due decadi congiunte e contrapposte, convivono la resistenza della gerarchia sociale e le marche residue di conflitto di classe, più altre problematiche calde, con uno sguardo turbato al domani che si teme già prescritto. Qui invece, per raccontare la rottura operai/sindacato si pesca un reperto congressuale, per inchiodare l’integralismo di timbro tendenzioso (con rivalutazione: poi sarà lungimiranza) c’è una sola battuta: la giovane militante che, rientrati ormai i licenziamenti, riafferma comunque la posizione di lotta. Una camicia macchiata, impatti generazionali, incisi come “Stavolta noi abbiamo perso ma domani perderanno loro”: simboli solari, schermaglie da tavola, sentenze lapidee.
Più esplicitamente = E’ stato un bel casino, ma bisogna semplificare per venderlo meglio.
E sotto lo stesso cielo vive il rapporto dei protagonisti. “Non te ne andare”, “Ti amo”, “Aspetta”, “Addio” è il loro frasario di riconoscimento, ripassato in continuazione, che suona più contraffatto perchè installato su linee concrete di spazio e tempo; a rimarcare due volte che nessuno parlerebbe così, nell’intimo quotidiano, mai e poi mai, neanche in clima di tempesta ideologica. Cinepresa incollata ai volti, riprese elementari e i due attori, Timi e Solarino, a lavoro sugli occhi col vago sospetto di meritare ruoli meno castranti; da Gifuni a Paravidino, non meglio gli altri bozzetti.
Piani alti e piani bassi, rovello ideologico, lastra controluce di un gigante nazionale; al centro c’è lo schieramento della regista, che infine esplode lampante, che illustra per didascalia la ferocia dell’azienda/piovra contro gli stessi sostenitori, insomma bacchetta le dita ai padroni. Il mondo secondo Labate come l’esame della protagonista: un’equazione matematica, che in atto contiene timori, dubbi e ripensamenti, ma poi dà risultato scientifico e dispone il reale per blocchi di granito (sopra e sotto, oppressi e sfruttatori, buoni e cattivi) in cui è impensabile riconoscersi.
Il totale non fa sempre uno ma il film ci dice che sì, insomma, più o meno, pressappoco.
Il totale non fa sempre uno, infatti stavolta fa quattro.