TRAMA
Nello stesso quartiere residenziale, quattro famiglie americane middle-class affrontano problemi diversi ma tutti legati all’incapacità di comunicare e di stabilire dei rapporti umani all’interno e fuori della famiglia (madri che trascurano le figlie, mogli insoddisfatte, mariti oberati dal lavoro). In un mondo di insicurezze non resta che affezionarsi agli oggetti, unici fedeli compagni di vita.
RECENSIONI
La tecnica retorica sottesa a “La sicurezza degli oggetti” è quella che dal particolare (quattro famiglie) innalza il suo sguardo all’universale (una visione dell’umanità). Per sostenere questo procedimento Rose Troche, da una parte utilizza la macchina da presa nel senso più intrusivo e spersonalizzato del mezzo, moltiplicando le oggettive e sovrapponendo continuamente i punti di vista, riducendo il senso dello sguardo ad una ipervisione che ha nella facile drammatizzazione (esibizione) delle immagini il suo unico fine. Dall’altra parte, per sigillare questo assunto non esita ad esplicitare nel finale del racconto quella “soggettiva divina” onnivedente (“American Beauty”) che dopo aver custodito insistentemente e nella loro totalità i personaggi, li abbandona innalzando il punto di vista e svelando una soggettiva totale aerea, che potrebbe appartenere solo ad una volontà “universalizzante”. Mentre a livello di strategia del racconto la regista sceneggiatrice adotta la scomposizione narrativa attraverso la sovrapposizione di più storie, e sceglie di abbandonare la linearità cronologica, per cogliere le storie nel loro climax, lasciando al finale il compito di riannodare la ricostruzione crono-logica degli eventi con prevedibile soluzione. Questo procedimento garantisce due cose. Tenere la noia sotto il livello di guardia con una costruzione non lineare del racconto (“Rapina a mano armata”), utilizzare una forma non conformista per rivitalizzare un contenuto affatto conformista. È un’operazione molto furba, che può essere riscattata in due modi. Grazie ad un invidiabile talento ritmico-visivo (“Magnolia”), oppure grazie alla genialità della scrittura (“Pulp Fiction”). E sono proprio questi due ingredienti quelli che mancano al film di Rose Troche. “La sicurezza degli oggetti” è un film corale, e per questo la regista adatta sette degli undici racconti dell’ultimo libro di A. M. Homes, ed un dramma morale, e per questo la Troche riprende i suoi schemi mentali su new age, femminismo, omosessualità (“Go Fish”, “Camere e Corridoi”), adattandoli al contesto famigliare medio-borghese americano. Ma è un’analisi appiattita da un esibizionismo ideologico privo della capacità di prescindere dall’immaginario di parte da cui proviene, e fine a se stessa in quanto già virtualmente annullata dalla superficialità dello sguardo che vorrebbe sovvertire i contenuti in virtù della potenza del mezzo cinematografico di mostrare, dimenticandosi di dimostrare il contenuto prescindendo dall’invasività dell’immagine. La sicurezza di sé è il limite maggiore di questo film. Troppo compiaciuto del proprio assunto e troppo esibizionista della propria materia per essere preso sul serio. A volte un oggetto di analisi è tanto più universale quanto più oscuro (desiderabile direbbe Bunuel), e un campo lungo è in grado cogliere meglio di un insistito primo piano la soverchiante incomunicabilità di alcuni “corpo a corpo”. Certamente Vanity Fair non è Schnitzler, e altrettanto la critica alla borghesia di Rose Troche fallisce nella borghesia il suo oggetto di critica
