TRAMA
Frequentare lo Shortbus, locale hard nel cuore di New York, è l’unico modo di risolvere i crucci sessuali di una coppia gay, una terapista in crisi, un giovane voyeur e altri.
RECENSIONI
Un provocatore vero John Cameron Mitchell: mostra gli organi genitali, maschili e femminili, per intere inquadrature! gira scene di sesso in ogni posizione! ci infila anche la svolta drammatica! e ora che ci penso, mio dio, c’è anche l’orgia! E’ una lettura possibile del film, la cui visione sarà appagante per chi non ha le palle (ops) per noleggiare un video porno – ripiegando così sull’occhiatina fugace – o per una platea, scientificamente individuabile, che gradisce passare il limite e spingersi oltre per il solo, impagabile gusto di autoimporsi il VM18. Agli altri è permesso portare il cuscino: l’ex attore, già regista di Hedwig and the Angry Inch, maneggia un pugno di personaggi nella polpa della Grande Mela, schiavi di tormenti sessuali ad alto grado metafora (il malessere interiore di ognuno – vivere in America oggi – frana sul guscio del corpo), vestiti per tutte le stagioni della vita (l’ex sindaco invecchia nel postribolo), equamente distribuiti per genere (uomo, donna, etero, omo). Woody Allen si masturba a Manhattan? Malgrado la psicanalisi, è solo un orgasmo simulato. Un plot al limite dell’inserzione (fittasi coppia gay per cosa a tre, piacere + emancipazione offresi, se stessi cercansi), è condannato da volgari rovesciamenti (la sessuologa che non raggiunge l’orgasmo), sec/greti universali a danno della vescica (Il vouyerismo è sempre partecipazione), perfino una sbrindellata eco d’attualità (sì, proprio l’11/09). Occhio: non è meno pretestuosa la frustata drammatica, che travolge nella seconda parte i protagonisti – un vibratore ovale, riposto dove potete immaginare, svela il dilemma dell’animo femminile -, dato che tutto si scioglie nel girotondo felliniano, vigliacca chiusura corale che non acquista fascino se si spogliano gli interpreti o se accompagnata dalla voce arcobaleno di una colorata drag queen. Shortbus è un esercizio di ordinata trasgressione che lancia il sesso e nasconde la mano; in debito con illustri e/o luridi colleghi (la pretestuosità di Larry Clark, l’impudenza della Breillat priva della sua onestà cervellotica), l’opera ammazza inoltre ogni vago sintomo di trovata (la Manhattan plastificata) gonfiandolo di pretese universali. Una stravaganza pittoresca, verrebbe da dire, se questa presunta “diversità” non fosse soltanto roboante vanagloria.
La provocazione invade anche il sito ufficiale
Nel movimento che ha via via eroso la soglia del cinema hard, fino a non molti anni fa il limite invalicabile sembrava rappresentato dall'esibizione dell'organo maschile in erezione e dell'atto sessuale nella sua concreta verità. Poi si sono fatti avanti Chéreau col sesso affannoso di due solitudini in fuga (Intimacy); Breillat e le sue sciocchezze filosofiche tra una scopata e un pompino (Romance, Pornocrazia), con preservativi da indossare (A Mia Sorella!) e attori recalcitranti a far svettare la propria virilità (Sex is Comedy); Bonello (Le Pornographe) e Ferrario (Guardami) hanno scelto di rappresentare il sesso all'interno d'un film nel film; Despentes (Scopami ) e Dumont (L'età Inquieta, L'Umanità) l'hanno coniugato alla violenza o alla nostra disumanità; Rodrigues (O Fantasma) ha mostrato a tutto schermo una fellatio omosessuale, e con registi come Clark (Ken Park) e Winterbottom (9 Songs) anche l'eiaculazione ha fatto la sua comparsa fuori dal circuito a luci rosse.
Con queste generose premesse, larga parte dell'attenzione nei confronti di tali film è tuttavia calamitata dal fatto in sé – per esso sembra ancora essere necessaria qualche speciale legittimazione – a detrimento della centralità della messinscena. Osservando la quale, in Shortbus si notano due cose. Innanzitutto, il progressivo decrescere della presenza del sesso “visibile”: si va dall'impatto della prima sequenza, che isola i protagonisti alle prese con la loro sessualità in atto, alla parte centrale in cui essa è una parte delle relazioni umane dei personaggi (che abbiamo nel frattempo imparato a conoscere): se nella scena fra Jamie, James e Chet il sesso sta fra una canzone strimpellata alla chitarra, una conversazione amichevole e la conferma d'un patto affettivo, nella scena ambientata allo Shortbus – dove il voyeurismo avrebbe potuto dilagare – il regista decide di glissare con brevi totali e brevissime inquadrature ravvicinate; la rapidità non morbosa dell'insieme lascia il posto all'assorto primo piano solo quando si tratti di inquadrare un volto. E nel finale, quando sembrerebbe doversi celebrare l'apoteosi del sesso, Mitchell rinuncia del tutto a mostrare organi genitali in azione e risolve la sequenza in un gioco di baci, di cenni d'intesa, di sorrisi timidi o aperti, di grida liberatorie; nella passione dell'abbraccio.
Il secondo elemento che emerge con decisione a smorzare i sospetti d'un uso pornografico dell'immagine sessuale (è noto come cineasti e critica abbiano molto a cuore, e giustamente, la moralità dello sguardo, salvo contraddirla od obliarla quando torna loro più comodo), è l'ironia che l'accompagna: il momento in cui Jamie canta l'inno nazionale con la faccia sprofondata nel posteriore di Chet, mentre quest'ultimo intona Stars Spangled Banner impugnando il pene eretto di James a mo' di microfono, è irresistibile oltre che felicemente dissacratore; ma anche la maratona erotica di Sofia è divertente, per non dire della deliziosa conversazione fra Severine e il suo partner, che offre un buon esempio dell'insolita qualità dei dialoghi: “Sei attiva o passiva, nella vita reale?”; “È questa la vita reale” risponde lei maneggiando un fallo artificiale e osservando senza particolare espressione il Ground Zero che si stende sotto i suoi occhi; “Mettiamola così: secondo te dovremmo ritirarci dall'Iraq?”; al che lei gli impone di prendere posizione per essere debitamente frustato; ed è esilarante il momento in cui l'eiezione di lui va a spiaccicarsi sulla riproduzione di un Pollock. Dove non è ironia, è l'ombra del dolore, della solitudine temuta e desiderata: James si pratica da solo la fellatio e poi, col volto imbrattato del proprio seme, scoppia a piangere; Severine dopo l'orgasmo è triste perché, spiega, il tempo non si è fermato come in quell'istante le era sembrato, e perché non è sola come in quell'istante aveva sognato.
Se ci siamo soffermati così a lungo su singoli momenti, è perché appaia in chiaro che la sessualità sbattutaci in faccia viene visualizzata quale concreta esemplificazione d'una condizione esistenziale (che scopriremo strada facendo, ma è in nuce racchiusa nella scena d'apertura): l'esatto contrario di quanto accade nei film che dell'esibizione del sesso fanno il proprio fine ultimo/unico. Così, la prima sequenza del film non è che l'equivalente delle classiche scene di presentazione dei personaggi: un'innovazione decisamente interessante.
L'elemento di crisi che accomuna i protagonisti viene ben illustrato dall'anziano signore, ex sindaco di New York, che frequenta con paziente continuità lo Shortbus gestito da Justin Bond, celebrità della scena en travesti newyorkese (che “passa metà del tempo spompinando la polizia per riuscire a tenere aperto il locale”; affermazione iperbolica e credibile a un tempo): non essere permeabili significa non essere sani. Per motivi e per vie diverse, James Sofia e Severine si sono resi impermeabili alla vita, alla propria identità (rifiutata nonostante le apparenze) come all'affetto e alle offese e al dolore degli altri; credevano di proteggersi e si stanno uccidendo; cercavano la tranquillità e hanno ottenuto una sorda e lenta agonia. Solo imparando a lasciarsi penetrare – in senso tanto metaforico che letterale – dalla loro stessa esistenza, possono non tanto ricominciare dall'ingenuità della speranza (ciò che in fondo sarebbe semplice: c'è sempre qualche spacciatore di speranze a buon mercato che bussa alla porta), quanto ricominciare a vivere. Ed è in questa accettazione che si può ritrovare anche la gioia, il bene forse più prezioso della stessa felicità e plenariamente donato nell'ultima sequenza, di sapore chiaramente felliniano – per una volta la citazione del maestro riminese non è peregrina o abusata. Il rinnovato o ritrovato abbandonarsi al sesso non è la consolatoria conclusione ravvisata da taluni; tanto meno è, all'opposto, la conferma dell'ultima terribile battuta di Eyes Wide Shut. Nessuno dei protagonisti vivrà quell'esperienza come l'aveva sperimentata all'inizio; il passo in avanti è stato già compiuto dentro se stessi, il cambiamento è in atto, la vita si riscuote dalla fissità della coazione a ripetere e torna a scorrere; il nuovo abbraccio non è premio né anestetico, ma una possibilità che si schiude, lusinghiera e rischiosa. È lecito dubitare che una risposta alla nostra angoscia si trovi là dove viene suggerita; ma è indubbia la generosa fede del film nel seguirne la via.
Trovare un film che esponga problematiche affettive immerse nella contemporaneità senza sprofondare nella melassa ed evitando di incasellare la sessualità in "giusta" o "sbagliata", condiziona già positivamente. Così come la scelta del regista, John Cameron Mitchell, di non occultare gli organi genitali e di mostrare esplicitamente l’atto sessuale nelle sue innumerevoli varianti, senza improbabili foglie o pezzi di mobilia che spuntano non si sa bene da dove per coprire l’attività di peni e vagine. Al riguardo l’inizio è una forte dichiarazione d’intenti. La macchina da presa sfreccia infatti su note jazz tra le strade di una suggestiva e coloratissima New York in plastica, entrando e uscendo da appartamenti in cui la copula, acrobatica, tradizionale e bizzarra, è frenetica e guizzante (geniale il lancio spermatico che si confonde con l’astrattismo di un Pollock). Se l’insieme è piacevole, alcune battute lasciano il segno ("a questa gente l'11 settembre è la sola cosa vera che sia mai capitata", "quando ero giovane volevo cambiare il mondo, ora mi accontento di lasciare la stanza con dignità") ed è gradevole lasciarsi cullare dal vagare dei personaggi in cerca di un tonico all’infelicità, bisogna però riconoscere che non tutte le storie godono dello stesso spessore e approfondimento. È sicuramente più originale la forma della sostanza. Mentre infatti il dolore della coppia omosessuale arriva motivato e incisivo e la solitudine della ragazza dedita al sadomaso ha momenti intensi (i dialoghi nella sauna) alternati ad altri che sanno più di riempitivo (il rapporto con il cliente "figlio di papà" e la svolta finale), l’incapacità della ragazza cino-canadese di raggiungere l’orgasmo e i vari tentativi per superare l’empasse, soffrono invece di un trattamento per lo più superficiale. Il suo graduale lasciarsi andare offre momenti divertenti, ma il rapporto con il marito è più che altro un insieme di gag, la presa di coscienza risulta sbrigativa (banali le immagini del groviglio di rami che nasconde un paesaggio marittimo immacolato), e la liberatoria decisione finale arriva più giustificata dalla necessità di chiudere in qualche modo la narrazione che dall’effettivo percorso psicologico del personaggio. La conclusione "felliniana" (basta una marcetta con annesso clown per non trovare aggettivo più adatto, ma è così), appare eccessivamente consolatoria e geometrica nel suo far quadrare l’esito delle vicende, ma riesce a non essere predicatoria e fastidiosa. Il film, oltre a mettere in scena disagi e incertezze di un gruppo di varia umanità che trova conforto nella libertà offerta dal locale che dà il titolo al film, è però anche un atto d’amore nei confronti di New York: metropoli dai mille volti "permeabile" al nuovo e in grado di permettere a ognuno di sperimentare il proprio imprescindibile sentire.