Drammatico

SHANGHAI DREAMS

Titolo OriginaleQing Hong
NazioneCina
Anno Produzione2005
Durata123'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Musiche

TRAMA

Nella Cina degli anni ’60 molte famiglie vengono incoraggiate a lasciare le città e trasferirsi in campagna per dare impulso all’industria locale. Ma in una di queste si scontrano i sogni di una ragazza ormai integrata nella provincia e quelli del padre che vede l’attuale come una sistemazione provvisoria e intende tornare a Shanghai.

RECENSIONI

Dedicato ai genitori del regista e agli innumerevoli individui che hanno lavorato nelle fabbriche della «Terza linea di difesa» (rappresentata, dopo l’esercito popolare e il partito comunista, dalle industrie trasferite, nei primi anni ’60, nelle regioni occidentali della Cina per timore di un’invasione sovietica), SHANGHAI DREAMS è un film di una tediosità, per dir così, assai meticolosa. Considerazioni come questa, dato lo spessore critico prossimo allo zero, non dovrebbero avere diritto di cittadinanza in una recensione, d’accordo, ma la visione della pellicola di Wang Xiaoshuai risulta talmente inerte, sterile e tenacemente improduttiva che trascurare la forte sensazione di noia provata durante la visione, trincerandosi dietro osservazioni più nobili e avvertite, sarebbe di una scorrettezza davvero imperdonabile.
La magagna maggiore del film risiede nella sua impronta estetica, impronta che potrebbe essere fantasiosamente definita realismo flemmatico: una singolare combinazione di fedeltà fotografica e sospensione contemplativa che dopo una dozzina di inquadrature inizia già a mostrare la corda, lasciando emergere una schematicità e una rigidità a dir poco programmatiche. Detto altrimenti e più tecnicamente, Wang mette sì in scena la vicenda di Quing Hong e della sua famiglia di sradicati politici con uno stile sobrio e disadorno ai limiti del verismo, ma provvede a frapporre tatticamente una corposa – e fastidiosa – mediazione tra lo sguardo della mdp e il profilmico. Questa soluzione si deposita in forme di smaccata riconoscibilità: lentissimi carrelli laterali (e in avanti), uscite dei personaggi dal quadro con conseguente permanenza sul campo vuoto, continui oggetti di ingombro sull’asse camera-scena, rudimentali giochetti inferenziali col fuori campo e altre prodezze simili. Tutte figure cinematografiche logore e esaurite, forme ormai ridotte a stanchi stilemi autoriali, formule visive irrimediabilmente caricaturali.
Eppure, a ben vedere, la materia narrativa offrirebbe anche spunti non banali. Il trasferimento coatto di intere famiglie di Shanghai nelle aride regioni della Cina occidentale per garantire mano d’opera alle imprese statali, il tema del conflitto generazionale fuso con quello dello sradicamento geografico (donde il forte spaesamento esistenziale) e, in ultima analisi, l’attribuzione alla realtà rurale di significati tradizionalmente associati alle metropoli (corruzione, degenerazione morale e criminalità) rappresenterebbero fattori d’autentico interesse in mano ad un regista meno scaltro e cerchiobottista di Wang. Qui invece ci troviamo di fronte a un esercizio di malafede impeccabile: il cineasta cinese, anche sceneggiatore, sviluppa queste aggregazioni tematiche in modo sostanzialmente convenzionale e ricattatorio (Wang non pare rinunciare ad alcun espediente drammatico, stupri e tentati suicidi in testa, per manipolare gli affetti dello spettatore), ricorrendo però, nella rappresentazione, ad un intero arsenale di stilismi visivi apparentemente e appariscentemente raffreddanti. A Cannes sembrano aver gradito: Premio della Giuria.