TRAMA
1963. Signal, Wyoming: due giovani , Ennis Del Mar e Jack Twist, vengono assunti come pastori dal rancher locale e mandati a pascolare le pecore sulla grande montagna di Brokeback. I due stringono presto una leale amicizia che si trasforma in qualcosa di più intimo.
RECENSIONI
Innanzitutto una precisazione: il battage sostiene che è questo il primo western gay (lascerei stare Lonesome cowboys, opera - mi si consenta il giochino - della Factory sì, ma lontana dall'Industria) ma ci sarebbe da discutere su una tale definizione visto che quella di Ang Lee è pellicola ambientata in epoca recente, alla fine degli anni 60 (il Devoto Oli precisa che western è il film che narra storie legate alla conquista del West americano da parte della popolazione di razza bianca nel secolo XIX). I due protagonisti non sono poi dei cowboy, come scritto da più parti, in quanto conducono pecore al pascolo, dato non trascurabile ed invero interessante: il pecoraio è infatti, dall'epoca de La legge del più forte (The Sheepman di George Marshall, 1958) vilipeso dal cowboy, è un uomo stravagante, lontano dalla rudezza virile del bovaro e bollato dunque come diverso.
Precisato questo, posto che quello omoerotico è da sempre elemento latente al succitato genere (Ultima notte a Warlock è forse il film nel quale la tematica veniva trattata più esplicitamente) è innegabile che ad Hollywood sia la prima volta che il nodo viene affrontato in modo così diretto e spudoratamente sentimentale. Forse proprio nel ricorso a una convenzionalità etero per la descrizione di un amore omo è da rinvenirsi l'inedito aspetto di un film imperfetto che ha il pregio di non scadere quasi mai nel patetismo, di pattinare sulla superficie finissima del melodramma senza mai spaccarla e sprofondarci, di restare mediamente sobrio; Brokeback Mountain è un film girato correttamente con unattenzione particolare ai paesaggi, con abbondanza di campi lunghi, panoramiche quasi sempre efficaci e mai meramente estetizzanti (ed è proprio nell'immersione dell'uomo nel paesaggio che va ravvisato il vero omaggio al genere e la ragione dell'etichettatura della pellicola). Non conosco il racconto da cui prende le mosse ma la scrittura del film ha momenti anche raffinati, riuscendo in molti casi a ben equilibrare non solo il dato generale di un ambiente e di un'epoca con quello particolare della storia d'amore dei due protagonisti ma anche il contrasto tra due immaginari, quello geografico (si parla anche di geografia dell'anima) e quello sessuale, in aperto conflitto. Le incertezze, invece, riguardano innanzi tutto il cast: se la scelta di due star in ascesa può essere coerente con la strategia di sdoganamento dell'argomento nella grossa distribuzione, restano dei dubbi sull'effettiva efficacia degli interpreti scelti: Heath Ledger ha la faccia giusta ma borbotta per l'intero film, scimmiottando l'accento locale (siamo in Wyoming) con risultati - ad orecchie anche esperte - piuttosto discutibili; Jake Gyllenhaal appare spaesato non poco, soprattutto nella seconda parte , quella in cui, da uomo cresciuto, sembra non gestire al meglio il mutamento di condizione, anche psicologica, del personaggio.
Il film, poi, se all'inizio riesce a calibrare il registro intimista, descrivendo con discreta progressione la conoscenza tra i due, la crescente confidenza, le modalità del loro approcciarsi e di gestire poi il menage clandestino, risulta molto meno equilibrato nella seconda parte, in cui si alternano lungaggini e passaggi a vuoto, e con un rischio, evitato in extremis, di una deriva gialla del tutto fuori luogo.
Resta curioso che quello che è stato il vero leit motiv della mostra veneziana 2005 (la crisi della coppia) si palesi in questo film come privo di barricate: non solo i matrimoni falliscono (la famiglia - sia essa borghese o proletaria - è culla suprema di frustrazioni, le più varie), anche nei legami tra persone dello stesso sesso le cose non vanno meglio, la sola prospettiva dell'abitudine diventa sinistro angelo sterminatore che, sbattendo le sue ali, rende nero il pensiero del futuro.
Da sempre il cowboy virile, forse proprio per l'aspetto macho dall'apparenza imperturbabile, è un'icona gay. Se il cinema pornografico di genere e qualche indipendente lo ricordano sovente ai diretti interessati, mancava una conferma mainstream. Ang Lee non ha quindi inventato nulla, ma ha il pregio di avere osato ufficializzare, con il contributo di due quasi star, ciò che era solo per pochi. Note di costume a parte, "Brokeback Mountain" è anche un bel film. Ang Lee si è sempre distinto per la sensibilità della sua visione (anche nell'affrontare un super-eroe come nel poco convincente "Hulk"), proprio per l'attenzione ai personaggi e ai risvolti psicologici. Quella che mette sullo schermo è una grande storia d'amore che contiene tutti i cliché del melodramma: l'impossibilità di un futuro, la passione rubata alla grigia quotidianità, i tentativi di andare avanti nonostante tutto e la tragedia improvvisa. L'aspetto sociale resta ai margini della vicenda, incentrata perlopiù sul profondo legame affettivo che si instaura tra i due protagonisti. L'andamento è lento ma conturbante e la prima parte (la più riuscita), scandisce la nascita di un sentimento forte con i ritmi della natura. Pochi dialoghi e una selvaggia spontaneità sullo sfondo di un Wyoming immenso e spettacolare, incapace però di racchiudere un amore così fuori dalle convenzioni. La seconda parte, invece, mantiene lo stesso rigore ma ha una resa più discontinua a causa della dilatazione temporale della vicenda, anche se la ripetitività non è dovuta al languire della materia narrativa (la sceneggiatura è in crescendo e tutt'altro che piatta), ma diventa contrappunto emotivo alla progressione affettiva dei due protagonisti. Per mettere la parola fine il copione osa poco, ma anche in questo caso Ang Lee si mantiene fedele al taglio asciutto adottato e non indulge alle lacrime. Decisivo l'apporto pacato delle note country della colonna sonora e l'abbraccio luminoso della fotografia. Perfetto il cast, soprattutto nei comprimari. Con i due interpreti principali, invece, non è sempre complicità: a volte Heath Ledger e Jake Gyllenhaal sembrano fuori parte e stridenti, in altri momenti si crede totalmente in loro. Nel complesso creano comunque due personaggi sfumati e a loro modo memorabili per quella che si caratterizza soprattutto come una grande storia d'amore, atipica nei protagonisti, ma classica nei palpiti del cuore.
Che l’universo dei cow boy covasse un sottotesto omoerotico è circostanza nota da decenni; il libro di Vito Russo Lo schermo velato aveva poi trattato la rimozione (e il ritorno) dell’omosessualità nel relativo capitolo della produzione cinematografica. D’altra parte, la psicanalisi fin dalla sua alba (Il presidente Schreber: osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia) ha rivelato che il cameratismo virile, apparentemente innocuo, è una forma tipica di sublimazione dell’attrazione dell’uomo per l’uomo.
Giunto buon ultimo a tale acquisizione, Ang Lee decide di raccontarci questa bella novità senza aggredirne formalmente i presupposti, i sottintesi e i luoghi comuni, anzi sguazzando in essi; il film fa così lo strano effetto di una confessione reazionaria, che sostanzialmente perpetua il mito fasullo apparentemente preso di mira: i rudi maschi di Brokeback mountain, come i marinai della brutta canzone di Dalla e De Gregori, si baceranno pure tra di loro ma rimangono pur sempre veri uomini – qualunque sia la sciocchezza che quest’assurda formula intende significare – e diverse sequenze si incaricano di mostrarlo. Certo viene sfruttato al massimo il filone gay friendly che imperversa, con esiti per lo più raccapriccianti, nel cinema degli ultimi anni – e anche qui non si scappa, massima aspirazione di uno dei protagonisti essendo il mettere su casa e famiglia col proprio compagno mentre l’altro brinda, bontà sua, all’annunciato matrimonio della figlia. A giudicare dall’inspiegabile Leone d’oro, il gioco sembra essere riuscito con una giuria evidentemente sensibile alla malinconia avvolta nella melassa, alla ridondante musica country, all’irritante misoginia con cui sono visualizzati i personaggi femminili (solo la madre di uno degli eroi fa eccezione: la mamma è sempre la mamma, dopotutto; la genitrice dell’altro è, per fortuna degli spettatori, defunta ab initio).
La pellicola non trae profitto – se non nei modi più scontati – da alcuno dei profili tematici in esso presenti: la passione esplosiva e profonda, il sentimento negato malgrado se stessi e infine ammesso fra le lacrime (che cadono nei punti critici del dramma come il cacio sui maccheroni), la prigione famigliare, le infinite prevaricazioni della solida società perbene, la differenza di classe, il sogno di una vita appagata che può realizzarsi – come una chimera – solo fuori dal mondo reale, in una cerchia di montagne su cui l’occhio del regista spazia abbondantemente, ma si direbbe con intenti di promozione turistica e immagini fragranti come potrebbero esserlo quelle dello spot di una celebre marca di sigarette.
L’autore aveva molte carte da giocare: avrebbe potuto fare di almeno uno dei protagonisti un personaggio a tre dimensioni – mentre l’altro resta un belloccio imbambolato – ma ha soltanto abbozzato un carattere ombroso, nevrotico, chiuso in un silenzio ostinato (comunque, ben reso da un interprete sorprendentemente adeguato). Avrebbe potuto concentrarsi sull’erotismo che trasuda dalla vita corpo a corpo che i due conducono nella prima parte del film, ma si è limitato – gelido e patinato – a osservare i giochi atletici degli aitanti giovanotti e a lasciar intravedere una scena di sesso così prudente (nove anni dopo Happy together e quattordici anni dopo Edoardo II, cadono le braccia) che sarebbe stato più onesto eliminarla del tutto. Avrebbe potuto nella seconda parte farci assaporare il gusto amaro di un’esistenza bugiarda e infelice, nonostante la figliolanza e (in un caso) il pigro benessere economico, ma si è prodotto in una serie di siparietti comici o patetici, comunque scontati. Avrebbe potuto concentrarsi sull’avarizia di una vita di fatica, restituendo allo stesso termine cow boy una pregnanza che invece, dopo un inizio promettente, viene smarrita. Avrebbe potuto elaborare una drammaturgia incandescente, e ha preferito il tepore insidioso di un sentimentalismo di maniera – l’invadenza dei primi e primissimi piani è invero fastidiosissima – sprofondando progressivamente in un’atmosfera da soap opera in cui non solo le mani di pastori in piena attività, tra fango e sterco di pecora, sono invidiabilmente curate; non solo la moglie deve sorprendere il coniuge fedifrago sul più bello (ma rinfacciare istericamente al marito la colpa e il peccato solo svariati anni dopo il divorzio, tanto per sottolineare che il pregiudizio condanna deviati e normali a una pena senza sbocco); ma anche la scena culminante del confronto fra gli amanti ormai maturi e disillusi è destinata, dopo un incipit di bruciante intensità, al naufragio, la banalità della gelosia prendendo in Ennis il sopravvento sulla frustrazione del proprio sentimento segreto ed esclusivo fino alla maniacalità, al quale si è disperatamente aggrappato e che lo piomba in una solitudine immedicabile. Ang Lee non è riuscito a volgere in stile i numerosi spunti da lui stesso colti con arguzia o intùito, ma li ha srotolati con infelice scelta di tempi e modi; ultimo ma non ultimo fra tali spunti, la camicia di Ennis sottratta da Jack e riposta unitamente alla propria: una comunione simbolica che richiama per contrasto il sordo dolore della concreta, e ormai definitiva, separazione fra i due. Ebbene, la potenza di questa immagine sarà dispersa quando il regista sentirà il bisogno di ripeterne la visione e di bagnarla di pianto, per commuovere anche il più petroso degli spettatori.
Da Ang Lee ci si può aspettare quasi di tutto, da Ragione e sentimento ad Hulk, tanto per essere chiari. Anche una storia d’amore western, in un film che in realtà è western solo nell’ambientazione, non nei contenuti e nelle dinamiche. Il regista fa “parlare” lo scenario naturale, utilizzando il rapporto diretto tra l’uomo e la natura per introdurre il rapporto tra due uomini e la propria natura. Per poi passare ad un contesto cittadino che racconta correttamente una certa America tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. Non conta poi moltissimo il fatto che sia l’impossibilità di vivere la propria omosessualità a logorare l’esistenza dei due protagonisti ed a sedimentare le loro frustrazioni. A ben pensarci le pressioni sociali, il peso del giudizio altrui, il prezzo da pagare a percorsi abbracciati senza convinzione e senza vera libertà di scelta possono essere applicati a mille altre storie diverse nella partenza ma non nel risultato. Il valore della sceneggiatura (davvero misurata) sta nella capacità di rendere le emozioni di due uomini che, in un determinato contesto sociale, si confrontano con i loro sentimenti. Due figure vere e toccanti, in cui si alternano alla perfezione ruvidezze, tenerezza, timori, slancio, insoddisfazione e rimpianto. Una storia senza troppe sorprese, forse, e di certo con qualche tempo morto, ma che non teme di lasciare il respiro necessario allo sviluppo dei sentimenti e degli eventi. Al servizio di Lee un buon cast, ed anche se Ledger appare in generale un po’ sopravvalutato, in questa occasione riesce a calarsi a pieno nella parte e ad interagire in modo credibile con un maturato Gyllenhaal. Non un capolavoro, ma decisamente un buon film.