TRAMA
Lucien, un giovane contadino del midi francese occidentale, durante la seconda guerra mondiale diventa un collaborazionista, sedotto dalla condizione sociale offerta dall’invasore nazista.
RECENSIONI
Cognome e nome Lacombe Lucien, coproduzione italo-francese con la notevole presenza di Franco Cristaldi, si apre con due sequenze che fungono esemplarmente da ouverture all’universo psicologico sotteso dall’intera diegesi. La corsa in bicicletta del giovane Lucien che attraversa con panica sintonia un’allegria di paesaggi campestri (fotografati magistralmente da Delli Colli) sulle note andanti con brio di Django Reinhardt descrive il personaggio riassumendone la sua inscindibilità dall’ambiente. Ma questa discesa ciclista in realtà è anche una sorta di traiettoria fendente inferta al corpo dell’immagine, uno squarcio che è come se ne strappasse l’integrità, rompendone l’unità apparentemente armoniosa. Poco dopo troviamo Lucien che spazientito dal lavoro nel piccolo ospizio abbatte di nascosto un fringuello con una fionda da monello. Il film non si pone altro che come un percorso di formazione da parte di questo monello nel suo transitare da una condizione di ingenua naturalità a una maturazione che necessita a sua volta del brusco passaggio per le forme di un’incultura prosaica e delatrice.
Malle racconta senza retorica un tentativo di narrazione come uscita dalla rimozione di un periodo infelice per la nazione francese come quello di Vichy e del governo Pétain affidandolo a un ragionamento sulla casualità degli eventi. Il passaggio da una fanciullezza irrequieta e ansiosa di azione e eroiche imprese a un collaborazionismo bieco e vigliacco appare naturale e casuale come la transitività di un’energia giovanile piena di natura che non può essere contenuta. Lucien vorrebbe infatti schierarsi dapprima con i partigiani. Non c’è consapevolezza politica nelle sue scelte, perché fondamentalmente non è stata compiuta nessuna scelta, soltanto un passaggio automatico di “eroici furori”. È nel momento stesso in cui Lucien si ferma a riflettere sulle sue azioni che egli acquista consapevolezza “politica”, soprattutto nel rapporto triangolare con la “diversità” culturale di France e suo padre, e si scopre inevitabilmente perduto e colpevole, e la sua troppa frequentazione di ambienti bene satura la sua natura insofferente all’occlusione facendogli riguadagnare nel finale una fuga verso l’aperto, verso la libertà da quello spazio e da quel tempo, verso quella naturalità, ora non più innocente e irrimediabilmente perduta.