Drammatico, Recensione

SAIMIR

TRAMA

Saimir, sedici anni, è un albanese immigrato in Italia: tra piccoli furti e l’approccio con una ragazza, con l’ambizione di una vita normale.

RECENSIONI

L’esordiente Francesco Munzi punta forte su un cinema di denuncia, fuggendo l’edulcorazione per mirare dritto allo stomaco; costruisce dunque il suo film come paziente pedinamento negli ingranaggi e nei topoi di una quotidianità diversa. Non è un caso che nella sequenza migliore, la più dura e stordente, l’impossibile riconciliazione si denuda quando Saimir irrompe nell’aula scolastica, stabilendo il contatto con quell’ambiente normale che lo spedisce in cortocircuito. Se preferiamo l’opera prima di Munzi a tante inconsistenti uscite di colleghi, occorre ammettere che SAIMIR è un film rigidamente a schema, che segue bassamente le sue tappe senza mai spiccare il volo: adottando il postulato di Ken Loach per lunghi tratti viene meticolosamente tratteggiato il sociale del protagonista, cogliendone le laceranti contraddizioni, mentre dall’alto incombe la scure della tragedia –inevitabile- pronta a calare nel finale. Indulgente silenzio sugli autentici capitomboli di stile (il rapporto tra Saimir e la ragazza è una cartolina firmata Muccino), qualche lode sommessa a Mishel Manoku, essere pallido e speranzoso che lancia un paio d’occhiate rabbiose da non sottovalutare; la conclusione è tanto attesa da destare scarso interesse, ovvero l’intreccio perde smalto al momento dell’affondo decisivo. Una scricchiolante prova generale verso evoluzioni future.

Sebbene i referenti privilegiati dell’esordiente Munzi (Loach, Dardenne in primis) siano così ingombranti da impedire che germogli uno sguardo svincolato e personale, nonostante si respiri aria di compitino ben svolto e vi siano momenti in cui la macchina da presa sembra andare per conto proprio, di quest’opera prima colpiscono l’asciuttezza, l’efficacia con la quale vengono toccati temi e descritte realtà sistematicamente ignorate dal nostro cinema (e fagocitate e spesso “falsificate” dall’onnivora tv), la grinta del giovane protagonista, una purezza dello sguardo che, anche se “derivativa”, fa ben sperare.

Saimir è un giovane albanese che vive in Italia insieme al padre Edmond, connivente con il traffico di clandestini provenienti dall'Europa dell'Est e in cerca di solidità nel nostro paese. Il rapporto tra i due è di reciproco affetto ma molto conflittuale. Per Saimir il destino sembra già scritto: lavoretti loschi e furti in appartamenti, sotto la guida non proprio luminosa della figura paterna, verso una vita che Saimir non sente appartenergli. È molto intenso il debutto nel lungometraggio di Francesco Munzi perché, più che dimostrare una tesi (i soliti luoghi comuni su etnie diverse con inevitabile inconciliabilità dimostrata a suon di sfighe), segue l'evoluzione emotiva del giovane protagonista fino alla presa di coscienza, dolorosa e definitiva. La regia è quasi invisibile, ma nel senso positivo del termine, in quanto la macchina da presa si fa tramite, senza la solita tendenza all'esibizione, della deriva dei personaggi. Alcune sequenze colpiscono per il rigore della messa in scena: il furto di gruppo nella villa con piscina e, più di tutte, quella dello stupro della quindicenne appena giunta in Italia; è terribile il contrasto che si crea tra la quiete degli squallidi interni delle catapecchie, in cui si beve nell’indifferenza, e le grida disumane della violenza a pochi metri e sotto lo stesso tetto. Non si vede nulla ma arriva tutto il peso dell'orrore. Scritto e diretto con pochi fronzoli, il film gode di due interpreti straordinari: Xhevdet Feri, il padre che rappresenta la vecchia guardia incapace di mettere in discussione il suo stile di vita per timore di perdere tutto ciò che ha faticosamente conquistato, e Mishel Manoku, il figlio ribelle che non si accontenta di esistere ma ambisce, giustamente, a vivere.

di Luca Baroncini

L’incontro avviene all’arena estiva di Fiorenuzuola d’Arda (Pc) dove il giovane regista romano è chiamato a presentare la sua opera prima, “Saimir”. Un temporale sembra precludere la proiezione all’aperto e la successiva chiacchierata, ma le nubi si diradano, gli spettatori prendono posto, le luci si spengono e lo spettacolo può cominciare. Quando il film finisce, tra gli applausi del pubblico, è tempo di dare il via alla “spietata” intervista:

Com’è nata l’idea del film e quali sono state le difficoltà incontrate nel progetto e nella successiva realizzazione?

Avevo già fatto, attraverso cortometraggi e documentari, alcuni ritratti di emigranti e di persone che stavano un po’ ai margini della società civile, cioè persone solo geograficamente in Italia. “Saimir” è stato lo sviluppo in maniera più organica, tramite un racconto lungo, di questi frammenti espressi in precedenza. Per quanto riguarda le difficoltà, esordire in Italia è una cosa difficilissima, perché nessuno ti conosce, fare il cinema costa tantissimi soldi e non è facile che i produttori scommettano su registi esordienti. Quindi ci vuole una grande pazienza e molta tenacia. Bisogna credere a fondo in ciò che si fa, altrimenti si finisce per gettare la spugna. Quasi tutto il cinema italiano è prodotto dallo Stato, a parte due o tre film come le commedie di Natale, oppure dalla Rai, che comunque è sempre lo Stato. In questi ultimi due anni in Italia c’è stato un taglio molto forte alla cultura, non solo al cinema ma anche al teatro, all’opera, e non ci sono stati praticamente esordi, tanto è vero che quest’anno il festival di Venezia ha delle difficoltà a selezionare film italiani di giovani. Spero che la cosa cambi, altrimenti rischiamo di riprecipitare nel baratro e di ingrandire ulteriormente la distanza esistente tra il pubblico e il nostro cinema. Una distanza che c’è, ed è molto grande.

“Saimir” è uno dei pochi film in cui non si riscontra un approccio sociologico nel confronto tra culture diverse. Nel tuo film si racconta una storia albanese, ci sono personaggi albanesi e l’Italia resta sullo sfondo come perimetro di ciò che accade. Come ti è venuta questa idea?

Ho tentato di riprodurre quello che avevo sentito facendo dei documentari. Ho fatto un documentario su una famiglia Rom, zingara, a Roma e anche su un gruppo di ragazzi clandestini romeni che stavano in un posto di mare vicino a Roma, dove ho poi girato una parte del film. Stando con loro, facendo le riprese, sentivo che pur essendo geograficamente in Italia, dal loro punto di vista l’Italia restava un’entità sfocata, quasi astratta. In “Saimir” ho voluto riprodurre proprio questo. Prima di tutto ho voluto utilizzare la loro lingua, per dare questo senso di straniamento. Molti romani che hanno visto il film non hanno riconosciuto i luoghi in cui è stato girato. In molti pensavano fosse stato girato in Albania, invece è Ostia, a venti chilometri da Roma. C’è da dire che girando d’inverno, senza sdrai e ombrelloni, il litorale romano cambia completamente fisionomia e diventa un non-luogo, dove gli immigrati clandestini possono vivere perché è più facile nascondersi. Ho voluto accentuare proprio questa sensazione. Uno sta in un posto, però è come se vivesse in un microcosmo tutto suo, una specie di carcere, anche se, come Saimir, ambisce ad uscire dalla gabbia in cui è relegato.

Quando si parla di immigrati lo stereotipo è dietro l’angolo. Spesso vengono descritti in modo binario: o buoni o cattivi, a seconda delle emozioni che si vogliono suscitare nel pubblico. Questo in “Saimir” non accade. Nel tuo film prevalgono le sfumature. È stato difficile questo approccio problematico? La sceneggiatura è stata ferrea o magari si è lavorato giorno per giorno basandosi anche sull’improvvisazione?

Arrivavo a raccontare una realtà che non era la mia, quindi ho cercato di mantenere la sceneggiatura il più elastica possibile alle sollecitazioni che trovavo, basandomi sui corti e sui documentari che avevo girato e cercando di raccogliere gli stimoli procurati dalla delicata fase di ricerca degli attori. Che poi sono non-attori, perché molti non avevano mai recitato e li ho scelti per via di facce che mi sembravano curiose o per via di esperienze che mi sembravano vicine a quelle dei personaggi del film. Quando si racconta di realtà così ai margini bisogna essere molto attenti a “rubare”, in senso buono, quello che si incontra. La sceneggiatura originale era molto più manichea , con i buoni e i cattivi, invece ho capito che nella vita ognuno ha una parte di bene e una di male, quindi mescolando gli elementi e rendendo tutto più ambiguo sentivo i personaggi più veri. Ad esempio, il padre di Saimir, Edmond, non è un cattivo a tutto tondo. In fondo ama il figlio e fa soltanto una parte del lavoro sporco, fa il tassista. È l’anello di un gioco più grande di lui. Anche Saimir non è un personaggio immediatamente positivo e mi sembrava giusto, visto l’ambiente in cui vive, farlo rubare. Un approccio di questo tipo mi sembrava più onesto nei confronti dei personaggi e della storia che volevo raccontare. Chiaramente questa non è l’immigrazione. Ho scelto tematicamente di raccontare cosa può comportare essere totalmente esclusi dai diritti fondamentali del cittadino; quando uno non può, non solo votare, ma nemmeno trovare lavoro, un passaporto, muoversi liberamente all’interno di un paese. Temi quanto mai attuali, visto anche gli attentati a Londra di pochi giorni fa.

La scelta finale del protagonista è davvero estrema. Si può infatti dire che arrivi a uccidere simbolicamente la figura del padre. Come immagini il suo futuro, dopo questa decisione così drastica e certo non priva di conseguenze?

Non lo so! Dovrei fare un secondo “Saimir”. Non riesco a immaginare il suo futuro. Sicuramente in apparenza può sembrare un eroe. In realtà, se uno ci pensa bene, è un momento molto drammatico, quasi autolesionista, perché Saimir, oltre ad avere perso gli affetti principali, resta da solo in un ambiente che non è il suo. Mi piace pensare che ce la possa fare, che possa tesaurizzare questo gesto estremo.

Come ti poni alla fine di questa tua fatica, al di là di Saimir, nei confronti del rapporto di integrazione tra realtà diverse? Sei ottimista per il raggiungimento di un punto di incontro non traumatico?

Il fatto di avere creato un personaggio come Saimir non è una cosa da poco, perché riesce a progredire e prova a diventare altro rispetto a quello che poteva essere. In questo personaggio c’è la mia posizione. Facendo il film sentivo l’esigenza di raccontare senza sconti la realtà che avevo imparato a conoscere. L‘immigrazione clandestina costringe moltissime persone a restare in un limbo in cui accadono molte delle cose che accadono nel film. La questione, quindi, da culturale diventa politica. Un immigrato per trovare lavoro deve per forza entrare clandestinamente. Non sono un politico, non sono un sociologo, ma penso che sia necessario rinnovare qualche cosa a livello legislativo. Non solo in Italia, ovviamente.

Come è avvenuta la scelta degli attori? Ci sono anche dei professionisti?

Xhevdet Feri, che interpreta il padre, è un professionista ed è uno degli attori più conosciuti in Albania. Qui non lo conosce nessuno, ma là è come se fosse uno del calibro di Giannini o Mastroianni. Lo fermano tutti per strada. Il ragazzino protagonista, invece non aveva fatto nulla. Del resto è difficile trovare attori professionisti a quella età. Per il resto, la maggior parte è composta da non-attori. Gli zingari sono zingari veri che mi avevano aiutato in un documentario precedente, ci sono molte persone prese dalla strada. Cercavo soprattutto facce che esprimessero caratteri e sentimenti. Saimir è stata la cosa più difficile da trovare perché cercavo la faccia di uno abbastanza duro, furbo, ma permeato da una vena malinconica e sofferente. Non cercavo il talento, ma un viso. Una volta trovato il viso ho cercato di capire se era in grado di reggere le riprese di un film, che durano tanto tempo e comportano tante difficoltà. Quindi sono andato in Albania per due mesi e sono stati due mesi di ricerca fallimentare nelle scuole, perché all'epoca c'erano i mondiali di calcio e a scuola c'erano solo i secchioni, mentre la maggior parte dei ragazzi stava per strada e nei baretti a guardare le partite. Quindi ero un po' depresso, poi, per caso, ho incontrato il mio Saimir che faceva acrobazie con la moto in una strada di Tirana. L'ho fermato. Mi sembrava una faccia interessante. Dopo un anno l'ho rivisto e ho deciso di scommettere su di lui, anche se non mi dava tante garanzie. Si presentava all'appuntamento e poi, magari, il giorno dopo ti dava buca. Con un margine di rischio ho deciso di affidare il film a lui, e mi è andata bene.

Il film è uscito in Albania?

Sì, ed è stato programmato per tre settimane. Buon risultato, considerando che ci sono sei sale in tutto il paese di cui una a Tirana. Ha avuto molto successo. Io non sono andato. Un po' perché avevo da promuovere il film in Italia, ma anche perché avevo paura che mi linciassero. Invece il film è piaciuto. Paradossalmente è stato maggiormente rifiutato dalle autorità, dall'ambasciatore, dal console; a livello politico piuttosto che dalla gente normale. Addirittura hanno scritto che sembrava un film fatto da un albanese e questo, per me, è un complimento grandissimo.

Dopo la buona accoglienza a Venezia, dove 'Saimir' ha avuto una Menzione Speciale come Migliore Opera Prima, la distribuzione nelle sale italiane è avvenuta in primavera. Come mai questo ritardo? Ci sono stati problemi?

Sì, ci sono state difficoltà perché lo Stato che ha prodotto il film, come per il 90% dei film italiani, ha poi tagliato l'ultimo anello, cioè il fondo della distribuzione. Siccome questo film è prodotto dallo Stato, gli incassi del film ritornano allo Stato, per cui è ovvio che nessun privato è interessato a promuovere la distribuzione che, ricordiamo, include anche i manifesti, la pubblicità, ecc.. Questo taglio ha bloccato quindi l'uscita del film. Poi la situazione si è sbloccata grazie anche al fatto che il film è circolato molto ed è stato preso al festival di Berlino. Diventava ormai una questione di prestigio. Così, è stato stanziato un piccolo fondo e alla fine 'Saimir' ha avuto la possibilità di uscire. Il periodo era molto sfavorevole per i film, quasi estivo. Già il cinema è in crisi, a maggio con il bel tempo è ancora peggio. Però sta avendo una buona accoglienza nelle arene e quindi spero che lo possa vedere il maggior numero possibile di persone. Purtroppo il fondo della cultura in Italia è piccolissimo. Sono 60 milioni di euro e per uno Stato è una cifra minuscola. Non posso che sperare che la situazione cambi, perché un paese senza cinema, teatro ed opera rischia di perdere la sua identità culturale.

Sei stato paragonato ai fratelli Dardenne, a Pasolini, a Scorsese. Ti ritrovi in questi modelli di riferimento e, soprattutto, hai dei modelli di riferimento?

Sono nomi tutti così grandi che vorrei evitare il confronto. È ovvio che mi fa piacere che ci siano dei rimandi. In generale, pensando al cinema italiano che ho visto nelle sale come spettatore, non mi sono ritrovato nell'ambientazione che ruotava intorno ai personaggi. Mi sembrava un po' una cartapesta. Ho tentato, facendo il film, di soddisfare me stesso sia come spettatore che come cittadino. Non ho fatto tanti calcoli, pensando ad esempio al pubblico, ho cercato di fare un film che mi piacesse.

E invece Francesco Munzi come spettatore quale film va a vedere al cinema?

Cerco di andare a vedere i film belli. Vedo più il cinema europeo e orientale che non il cinema americano. Il cinema americano è molto potente, fa parlare molto di sé, ma rispetto alla mole della propaganda non c'è riscontro nella qualità. Cerco quindi di razionalizzare e di non farmi fregare dalla pubblicità. Poi esistono grandissimi film americani e grandissimi registi americani. Però bisogna ricordare che il cinema americano sta rischiando di affossare quello delle altre nazionalità. In Francia ci sono state misure protezionistiche. Noi, invece, siamo ancora legati al piano Marshall del 1953, dove all'America è garantita una possibilità di invasione enorme sul nostro mercato e questo, oltre a distruggere il mercato nazionale, colonizza i gusti del pubblico. Cosa sicuramente più grave perché incide direttamente sull'immaginario, soprattutto per i ragazzi più giovani, legati in modo acritico al codice convenzionale del cinema americano.

Quanto è costato il film?

Lo stanziamento è stato di un milione di euro, però il 20% viene poi restituito allo Stato quindi la cifra lorda è di 800 mila euro. È una cifra bassissima per un film.

È stato venduto all'estero?  E acquistato dalla televisione italiana?

Curiosamente è stato acquistato da tutte le televisioni europee tranne da quella italiana. Adesso dovrà uscire nelle sale in Svezia e siamo in fase di accordo con la Francia. La televisione di stato insegue un'ottica imprenditoriale fasulla. Guarda solo i numeri e inseguendo istericamente i gusti del pubblico ha abbassato il livello qualitativo ai minimi storici e non riesce neanche a guadagnare, perché non ha nemmeno la mentalità imprenditoriale fino in fondo come, ad esempio, Mediaset. Il mio film aveva previsioni di Auditel bassissime e la Rai, non considerandolo un investimento, non lo ha acquistato. Nel resto d'Europa ragionano diversamente. È un film che è andato nei maggiori festival e ha ottenuto riconoscimenti, quindi averlo acquistato e trasmetterlo porta prestigio alla televisione. Ovviamente in seconda serata. In Italia questo non succede. Non è un caso che i bei film vengano trasmessi a notte fonda.

Qual è stato il tuo percorso professionale?

Ho fatto l'Università poi, di nascosto dai miei genitori, ho inviato una domanda al Centro Sperimentale di Cinematografia, che è l'unica scuola pubblica di cinema esistente in Italia. Mi hanno preso e a quel punto è cominciata questa avventura. Ho seguito il corso di regia dove ti fanno fare delle sperimentazioni pratiche e ho fatto cortometraggi e documentari. Poi è iniziata la trafila. Questo non è nemmeno un mestiere. È una lotteria. Penso che per fare il regista bisogna avere il carattere, e questo non ha nulla a che fare con il talento, ma con la capacità di resistere sia livello fisico che psichico. Ovviamente alla base c'è l'amore per il cinema, con la visione di tantissimi film.

La pioggia, da qualche ora in complice attesa, comincia a rivendicare i suoi spazi e l’intervista si conclude tra gli applausi del pubblico, il pulsare delle nuvole e l’immancabile foto del disponibile regista di fianco al cartellone del film. Il giorno dopo lo aspetta il festival “Incontri con gli autori”, organizzato da Marco Bellocchio a Bobbio, dove “Saimir” è stato inserito in concorso e dove ci giunge notizia che abbia pure vinto. Che dire, complimenti.