TRAMA
Un regista, stanco dei capricci degli attori, si affida a un elaboratissimo software che gli confeziona la radiosa Simone…
RECENSIONI
Simone, c’est nous
Una donna bellissima, un’interprete raffinata, una lavorat(t)rice instancabile, il docile strumento di cui ogni genio (effettivo e non) vorrebbe servirsi: è il dono offerto da un bizzarro ammiratore a un (ben poco) riluttante autore per risollevare le sorti di una carriera che un’ex moglie – produttrice non è disposta a incoraggiare ulteriormente. Ma se Hollywood è a una svolta (o a un ending?), la vita del protagonista è altrettanto (dis)turbata dall’invulnerabilità di Simone, contenitore dei sogni privati (di Viktor) e, soprattutto, di quelli pubblici. Pigmalione (o Professor Higgins, dato che la Creatura è una versione evoluta di Eliza) e Narciso (le immagini allo specchio dell’intervista) al tempo stesso, il regista vede i propri sogni di riscatto artistico, professionale, emotivo offuscati dallo sfacciato trionfo di un ologramma: quando decide di disfarsene, mette in pericolo la propria vita e può salvarsi solo ripetendo (potenzialmente all’infinito) la menzogna. Ma è davvero menzogna? Lo charme di Simone non nasce semplicemente dalle sue doti, ma dallo sguardo altrui, dall’occhio di un genitore che le ha donato la vi(s)ta e da quelli, adoranti e indiscreti, di un popolo di ammiratori che sono insieme sacerdoti e fedeli del culto dell’immagine, del cinema. Soltanto le persone superficiali – disse Oscar Wilde, e sottoscriviamo pienamente – non giudicano dalle apparenze: il fascio di luce sullo schermo è la sola divinità degna di altari e sacrifici, l’unica realtà dotata di significato. Le ombre su un telo bianco sono indipendenti dai loro velleitari creatori. Un incanto collettivo ribalta la situazione: non siamo noi a creare personaggi e storie, ma la possibilità di sognare (partendo da) i frammenti dell’illusione consente la percezione, la vita. Sostenuto dalle scenografie oltraggiosamente antinaturalistiche, totalmente astratte, semplicemente magiche di Jan Roelfs (magnifici i viali della casa di produzione, inondati da un sole pulviscolare), Niccol tratteggia atmosfere di sicuro fascino (soprattutto nella prima parte) e dirige sapientemente gli attori (viventi e non) coinvolti nel progetto (il doppiaggio, una volta tanto, non li distrugge, almeno non del tutto). Ma, a causa di uno script non tanto brutto quanto goffo, pieno di passaggi ovvi e di un risentimento (verso produttori, giornalisti, attori) che si traduce in prevedibile, innocua caricatura, il meccanismo mostra le giunture, i pixel si sfaldano in sgranature quanto mai fastidiose, il sogno si appanna. La stella risplende, ma potrebbe trattarsi di un fuoco fatuo.
Il codice delle caramelle gommose
Non più "Penso, quindi sono", bensì "Appaio, quindi esisto". L'imbroglio eterodiretto del Truman Show e geneticamente perfetto di Gattaca trasmigra nella Fabbrica dei Sogni, nel Viale del Tramonto (uno dei titoli di Taransky: Sunrise Sunset). Il pubblico non vuole gli esseri umani quando può creare e adorare gli dei, preferisce la Notte degli Oscar al reportage sulla miseria del Terzo Mondo. Il risveglio nella realtà definisce il sogno e lo turba: il tentativo di Taransky di distruggere l'immagine pubblica della sua Tootsie frana di fronte all'amore cieco (o orbo, vedi il polifemico creatore di S1m0ne) che non vede il porcile (il paradossale cortometraggio I am pig) e non distingue la carne dall'ologramma (al concerto). È la convinzione che la simulazione sia reale a darle vita. S1m0ne è un’icona irresistibile, ricreata e ricreativa (Antonioni lo lascia fare a Taransky) ma la sua stessa natura di Fedora virtuale (irraggiungibile come la Garbo) invita alla riflessione e lancia dardi avvelenati contro lo spettatore medio, isterico e feticista. In una commedia che vuole restare tale, eccedono in pixel senza sostanza il tema del Pigmalione (creatore o creato?), la tesi del crimine che diventa reale nel momento in cui la maggioranza lo definisce tale, la stigmatizzazione delle leggi che regolano lo star-system, l’infondata nostalgia del passato (quello delle dive "malleabili" di cui S1m0ne sarebbe una sintesi: in realtà è “posseduta” dalla modella Rachel Roberts), il lieto fine che confonde il compromesso della finzione con la finzione del compromesso. Il fantasma di S1m0ne, però, ricompare dopo i titoli di coda e turba il sonno: si può essere falsi senza mentire? Autentici senza essere reali? Cosa differenzia il codice binario da quello genetico? Combinando le caramelle gommose, Taransky forma una nuova molecola, con colori artificiali che Niccol adotta per l’intera opera, insinuando che tutti i rapporti interpersonali sono vittime dell’affettazione: il prossimo lo definiamo solo attraverso le sue "manifestazioni". L’amore rinasce su sentimenti pilotati dalla virtualità (perché l'ex-moglie torna dal marito?). Il personaggio non è l'interprete, il divo non è l'essere umano, l'essere umano porta la maschera di un personaggio. Siamo tutti S1mulazi0ne.
La vera storia di Megan Gale
Da anni si parla di attori virtuali al posto di quelli umani e il film di Andrew Niccol (gia' regista di "Gattaca" e sceneggiatore di "The Truman Show") estremizza l'idea ipotizzando un regista in crisi, a causa dei capricci della prima attrice, che pensa bene di sostituire con S1m0ne, una bionda creata da un elaborato software. Lo spunto di partenza e' divertente e si presta ad una caustica analisi sociale, ma il film fatica a svincolarsi da una carineria di fondo che ammorbidisce molto il piglio della critica. La colpa principale e' della sceneggiatura, che trasforma rapidamente l'attrice virtuale in una star mondiale senza creare i presupposti perche' questo accada. Pensiamo ad un regista tipo Wim Wenders, tanto per fare un esempio, che dirige un ambizioso film d'autore con una bionda mozzafiato come protagonista. Chi se lo filerebbe, soprattutto in America? Invece S1m0ne conquista di colpo il mondo intero. Certo, il lungometraggio di Niccol vorrebbe ironizzare sulla totale falsita' dello star system, sulla completa manipolabilita' del pubblico, avido di miti da amare, distruggere e rimpiazzare, sulla mercificazione di una societa' basata eclusivamente sull'apparenza. Ma la satira colpisce ad intermittenza e non punge mai in profondita', per cui il film galleggia indeciso sul taglio da imprimere al racconto e diventa una sorta di ibrido, non abbastanza cattivo da mordere, non sufficientemente divertente da conquistare.
E' uno di quei casi in cui la tesi da esporre prende il sopravvento sulla storia raccontata, che scricchiola in continuazione sotto le maglie della verosimiglianza. Forse il principio "appari quindi sei" sarebbe stato piu' efficace (nonche' trito) ambientato nel mondo della televisione, unico vero strumento in grado di entrare in tutte le case e di condizionare in modo sotterraneo le scelte del singolo. Il cinema, invece, implica una scelta personale che puo' essere condizionata (vado a vedere quello che mi dicono di andare a vedere) ma resta pur sempre una scelta: devo uscire di casa e decidere di entrare in una sala cinematografica, non mi basta premere un pulsante ed essere bombardato da immagini. Anche i dettagli tecnici, per quanto non determinanti, sono posti con una grossolanita' da far rimpiangere "Electric Dreams" come film d'avanguardia (elaborati software su minidisk da 5 pollici e un quarto, ormai scomparsi dal mercato; geni del computer ad ogni angolo; l'assenza di dubbi tecnici nel protagonista, non certo un esperto). Gli interpreti invece sono in parte: Al Pacino, nel primo ruolo comico della sua carriera, presta la sua gigioneria di classe al protagonista senza soffocarlo con scene madri e occhi sgranati e fa piacere incontrare Winona Ryder non sulle pagine di qualche tabloid scandalistico ma sul grande schermo, anche se per poco piu' di un cameo. Quanto alla bella di sintesi senz'anima, Rachel Roberts, funziona a dovere, anche se mai si pensa che possa essere realmente virtuale, come la produzione ha tentato di spacciarla (non compare manco nei titoli di coda se non come "S1m0ne nel ruolo di se stessa!").