Drammatico, Recensione

CENTOCHIODI

TRAMA

Giovane e affermato professore di filosofia appende i libri al chiodo (letteralmente) e si rifà una vita in riva al Po. Non durerà.

RECENSIONI

È banale dire che con Centochiodi Olmi propone il suo Codice da Vinci. Banale, ma non inesatto. Il film parte da un’indagine relativa a un atto blasfemo (nei confronti di una cultura elevata a sapere eterno, valore sommo e indiscutibile, feticcio, in breve: religione) e prosegue alla ricerca del Nazareno, che rivive nel contesto contemporaneo, anche se almeno parzialmente “fuori dal tempo”, di un paesino della Bassa mantovana. Cristo (un Cristo diverso da quello, ancora una volta sotto mentite spoglie, de Il mestiere delle armi) è un figliol prodigo che si ribella a un Padre cieco e sordo e cerca in un nuovo, più intenso contatto con la Vita non solo la risposta ai quesiti dell’esistenza, ma una possibilità di risarcimento per gli anni trascorsi al servizio di un idolo sterile. Invano. Il figlio dell’Uomo, rinnegato dal Genitore, dà quanto gli resta (letteralmente) per aiutare i suoi nuovi amici e abbandona definitivamente il mondo, entrando così nella sfera della leggenda. Dopo un incipit serrato e ruvidamente efficace, che schizza con pochi tratti un piccolo mondo meschino e di dubbio gusto (la fauna universitaria), Centochiodi si adagia in un facile ritrattino della serenità agreste, in cui l’elogio della Natura ha poco dell’ebbrezza panica di un Piavoli (vedasi, su temi non dissimili, Al primo soffio di vento) e molto di letteratura ammuffita (i siparietti dialettali, le schermaglie fra il protagonista e la bella rustica), mentre i richiami evangelici sono risolti in modo piuttosto verboso, trovando solo occasionalmente (l’apparizione notturna di un’ipotesi di Sacra Famiglia) il lampo oscuro che fa della citazione agiografica il frammento di un mondo a metà strada fra il ricordo e l’archetipo. Le cose non vanno meglio nella parte finale, in cui a un edificante discorsetto del Professore (un Raz Degan così improbabile che il doppiaggio di Adriano Giannini non fa che peggiorare la situazione) segue un confronto con il maresciallo degno, quanto a plausibilità ed efficacia, del dialogo fra Irene e la psichiatra in Cuore sacro di Ozpetek. L’occhio del Maestro c’è e - a tratti - si vede (la silenziosa attesa della fanciulla in lacrime), ma è davvero troppo poco. I libri hanno fregato pure lui.

Che Centochiodi sia l’ultimo lungometraggio di finzione di Ermanno Olmi prima del suo definitivo e irreversibile ritorno al documentario è stato detto in tutte le salse, è quindi del tutto inutile ripeterlo, cosa che abbiamo appena fatto perché l’inutilità ci si addice. Volendo continuare nel solco dell’inutilità, possiamo aggiungere che il film parla di un professore di Filosofia delle Religioni (detto “il professorino” e interpretato effettivamente da Raz Degan anche se è dura crederlo) che, arrivato a un certo punto della sua carriera (manco avesse trent’anni d’insegnamento alle spalle), si stufa e inizia a inchiodare manoscritti per ogni dove. Così, perché ha deciso che i libri dicono le bugie e servono solo ad ingannarci. Olé. Poi cambia aria sbarazzandosi di tutte le chincaglierie della modernità: scaraventa il telefonino per la strada, molla la macchina sotto un ponte e dallo stesso ponte (o da un altro, chi lo sa) getta nel fiume (quale se non il Po?) la sua giacca col portafoglio in saccoccia. Insomma, si ribella e cambia vita dicendo no al sistema. E noi siamo con lui, che diamine! Qui inizia tutta una girandola di incontri e simpatiche relazioni con gli abitanti del luogo (siamo nel mantovano, pare) che parlano in dialetto strettissimo, ma siccome ci sono i sottotitoli Raz li capisce e noi anche. Gli autoctoni si prodigano nell’assistere e aiutare questo nuovo venuto che somiglia tanto a Gesù Cristo e che parla tanto bene perché doppiato da Adriano Giannini. Lui ricambia la cortesia estraendo la carta di credito dal taschino (non della giacca, quella l’aveva buttata da uno dei tanti ponti di questo commento) e sborsando più di ventimila euro per pagare una multa inflitta dal Comune agli occupanti abusivi dell’argine del Po. Così facendo però finisce per farsi rintracciare dai carabinieri – quelli della biblioteca universitaria l’avevano capito che era lui l’inchiodatore folle – che lo trattano inspiegabilmente coi guanti bianchi e parlano con lui come se si stessero rivolgendo a Dio sceso in terra. Altrettanto incomprensibilmente Raz ottiene gli arresti domiciliari e succedono altre cose (non moltissime a dire il vero) che è bene tacere.
Ordunque, da questa pirotecnica sinossi Centochiodi sembrerebbe un film per decorticati o minorati psichici. In realtà non è così, o almeno lo è soltanto in parte. Le aggregazioni tematiche tirate in ballo sono parecchie e parecchio toste: dal sapere come verità cartacea alla conoscenza in quanto segreto in cui immergersi, dalla religione come dogma alla religiosità come enigma. Frontiere da oltrepassare per confrontarsi con l’altro da sé, anche se idealizzato, frainteso, postulato. Ma pur sempre irriducibilmente altro. Al di là delle rassicuranti copertine dei libri si squaderna l’incontrollabile, che a dirla tutta è anche l’inconoscibile. Si può conoscere davvero l’essere umano? Si possono forse conoscere le cose? Eppure è dato convertire quest’ansia epistemologica in dialogo concreto, tangibile, non necessariamente sostanziale e totalizzante ma più semplicemente parziale a “sostanzioso”. È dato placare il furore intellettuale in un contatto umile con la singolarità delle esistenze: dalle diversità degli individui alle identità dei luoghi, dall’eccezionalità dei dialetti alla storicità dei territori. Roba seria, insomma. E a tratti i dialoghi – generalmente inascoltabili senza lesioni acustiche – fanno scattare la scintilla della riflessione partecipata e addirittura della commozione. Quello che piace di più dal punto di vista tematico è che il rifiuto dell’istituzione universitaria non si traduca banalmente in isolamento rancoroso o in ripiegamento familiare, ma nell’inserimento (non importa se artificioso) in una comunità allargata dove le relazioni non sono configurate in modo convenzionale, ma sono all’impronta di una libertà amorosa. Niente di realmente dirompente, d’accordo, ma almeno si legge un abbozzo di utopia (che questa sia ingenua, elegiaca o velleitaria non ne sminuisce la portata). Dal punto di vista strettamente cinematografico il film è altrettanto inclassificabile: in alcuni momenti sembra di assistere a un prodotto televisivo di media fattura (standard a cui si attiene la recitazione), in altri una splendida luce cristallina investe le immagini rendendole piene di gioiosa vivacità, in altri ancora la fotografia si illividisce improvvisamente proiettando sulla vicenda un’ombra addirittura funerea. Non sono soltanto i registri luministici e cromatici a cambiare però, è la qualità stilistica a oscillare paurosamente, rendendo letteralmente impossibile stabilire se ci troviamo di fronte a una boiata o a un piccolo saggio di cinema insubordinato. Il doppiaggio a dire il vero è forse il maggiore responsabile di questa ingiudicabilità, soprattutto nella prima parte le voci sembrano appiccicate allo schermo col mastice: ricondurre i fonemi ascoltati alle labbra da cui quegli stessi fonemi dovrebbero essere prodotti è ogni volta un problema di sospensione dell’incredulità. Dopo un po’ la situazione migliora a dire il vero, anche grazie alla scelta provvidenziale di non doppiare i dialettofoni, cosa che conferisce al parlato una verità inaudita fino a quel momento. Ma se è vero che complessivamente Centochiodi non somiglia a nessun altro film (non mette conto citare le ultime prove olmiane quali l’imbarazzante Cantando dietro i paraventi o la sciocchezzuola di Tickets), è altrettanto vero che nella sua sconcertante disomogeneità mette in circolo idee cinematografiche di grande suggestione: da una parte le fughe eversive e sorridenti di Otar Iosseliani (impossibile non pensare a Addio terraferma o Lunedì mattina, solo per citare i primi titoli che vengono in mente) e dall’altra il cattolicesimo rinnegato, intriso di malinconia e solitudine di Valerio Zurlini. In quello straordinario capolavoro che va sotto il titolo di La prima notte di quiete era infatti un altro professore randagio, Daniele Dominici (struggentemente interpretato da Alain Delon), a terminare la citazione evangelica iniziata da Spyder (vedi caso Giannini padre), citazione che potrebbe chiudere tranquillamente l’ultimo lungometraggio di finzione di Ermanno Olmi: “È risorto, come disse, il terzo giorno. Andate, vi ha preceduto in Galilea, là lo incontrerete”. Con la sola differenza che il Daniele Dominici di Zurlini non era cristiano, era ateo e splendidamente nichilista.

Centochiodi si apre inopinatamante col sarcasmo immaginifico e scanzonato d'un Bellocchio e si chiude, altrettanto inopinatamente, su uno spudorato, coraggioso primo piano dalla valenza sentimentale non inferiore a quella d'un Lelouch. In mezzo, un film che ha la sostanza e la nettezza didascalica d'una parabola: ampio spazio ai dialoghi esplicativi e all'allegoria, qualche sprazzo lirico (non troppo riusciti quando entra in gioco la natura, piuttosto intensi quelli “evangelici”) a inframmezzare la fabula, e la medesima idealizzazione cristiano-populista degli umili con cui Olmi aveva innervato, trent'anni fa, L'Albero degli Zoccoli (complementare all'idealizzazione social-populista del proletariato doviziosamente profusa da Bertolucci in Novecento). Sono cifre molto apprezzate, fra gli avversari del minaccioso e penitenziale assolutismo neotomista oggi tanto rassicurante – per un Occidente spaurito da se stesso – da essere sospinto fino al soglio pontificio sotto le spoglie d'un vecchio inquisitore tedesco. Ma i libri che Olmi inchioda al pavimento d'una biblioteca sono quelli della sapienza mondana; tutti, anche quelli di cui senza dubbio si nutrono i fautori d'un cristianesimo blandamente pastorale, caritatevole e prono alla modernità. Invece, una visione radicalmente antimoderna presiede al cristianesimo olmiano, oggi come allora; ma se allora essa venne criticata come rinunciataria e servile, oggi sembra tornare utile all'ottusa critica “da sinistra” della deriva autoritaria, melliflua e feroce della religione porporata. In modo esattamente speculare, all'ideologia reazionaria torna oggi utile la critica senza remissione che della modernità fece Pasolini: il quale fronteggiava il maleficio del proprio tempo “con maromorea volontà di capirlo”, e finiva col rifiutarlo definitivamente, optando per un mito atemporale e dominato dal pensiero primitivo e magico o per un abominevole ed eterno presente in cui trionfava la “tolleranza repressiva” del capitalismo consumista, borghese e naturalmente criminale (il cui schema trascendentale venne illustrato in Salò); proprio negli anni stessi in cui Olmi levava il proprio canto contadino e rassegnato fin da subito all'inerzia del reale, dunque incapace di pensare la Storia. La poetica di Olmi è estremamente esigente nel suo antiintellettualismo, nel suo francescanesimo; lo ripetiamo, nel suo rifiuto della modernità: i crucci della ragione, la necessità dell'azione politica, la dialettica e la filosofia sono inganno e turpitudine; la cultura ha prodotto solo disastri; l'unica risposta è nella legge dell'amore e della fratellanza, nell'economia del dono. L'entusiasmo di certa critica trascura il peso della sfida e della rinuncia che tale poetica esige; e sembra ravvisarvi un Sacro liberato dal timore e un opportuno sostituto d'una religiosità proterva e ossessionata dall'idea del Male. Ma, al pari della parabola in cui si innesta, la poetica di Olmi è lontana da ogni trascendenza e perciò rifiuta il Sacro (all'opposto di quanto tenta di fare il Costanzo di In Memoria di Me); e nessuno stupore la abita, nessuna incertezza: una spiritualità del tutto immanente che rifiuta ogni astrazione e trova ogni risposta là, sulle rive d'un Po idealizzato al pari delle genti che ne popolano le rive.