Drammatico

CARGO 200

  • 37328
Titolo OriginaleGruz 200
NazioneRussia
Anno Produzione2007
Durata89'
Sceneggiatura
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Fotografia
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TRAMA

Sullo sfondo della campagna in Afghanistan, le indagini di un anziano professore, alla ricerca di una ragazza scomparsa…_x000D_

RECENSIONI

Gruz 200, film sulla fine di un’epoca (siamo nel 1984, alla vigilia della Perestroika), racconto grottesco e densamente metaforico, ha il pregio di perseguire coerentemente un’idea di stile sfiorando lo sgradevole, di mostrarci un mondo desolato popolato di esseri che hanno perso ogni speranza senza compromessi e senza riparare in facili scappatoie. Duro, accavalla una serie impressionante ed incredibile (nonostante sia ispirato a fatti realmente accaduti…) di azioni, gesti contrassegnati dall’abiezione e/o dalla disperazione più assoluta: il cadavere del fidanzato della protagonista, soldato in Afghanistan, recapitato come una “lettera d’amore”, mentre lei, legata e seviziata da un maniaco, non ha più lacrime da versare; una vecchia signora anche lei legata, ma alla bottiglia ed al tubo catodico. Su tutto e tutti, la paradossale ed inquietante “emergenza divina” sul cadavere già in decomposizione dell’Urss: inquietante perché è proprio dal più ortodosso degli ortodossi, da sempre anticomunista, che si sprigionerà la violenza più atroce.


E’ molto programmatico il film di Aleksei Balabanov, nel senso che scandisce attentamente i propri movimenti linguistici; a partire dalla prima sequenza, un dialogo a due costruito per gettare le coordinate spazio-storico-temporali (Unione Sovietica, campagna in Afghanistan, 1984), e proseguendo attraverso il confronto ateo/credente a fare il punto sulla questione ideologica. Lo script, vergato dallo stesso autore di Brother e Il fratello grande, sembrerebbe netto e dimostrativo, un’accusa che non possiamo respingere del tutto – specie negli spostamenti intimi dei personaggi: la conversione di Artem – ma che si limita alla forma, e viene riparata da una suggestione invece sostanziale: il contrasto tra Idea e Carne. Più i protagonisti tendono a caratterizzarsi con attributi astratti, dissertano sui grandi sistemi, si qualificano per illustri etichette (“Sono la figlia del segretario regionale del partito”), più scivolano in una limacciosa condizione materiale. Chi parla del cielo va sottoterra: un passaggio intransigente, dall’alto verso il basso, che viene esteriormente segnalato dal prosperare dei vizi. Il tradimento (Angelica e Valera), l’alcolismo (Aleksey e Artem), la depravazione (Zurhov), la complicità (Antonina), la catatonia (la madre di Zurhov) sono le pustole di sfogo per questa patologia. Mentre si continua a masticare la liturgia comunista (retorica guerresca, eroismi, sepolture), intanto, lo spazio epidermico è bollato: i corpi vengono violentati, crivellati da pallottole, risultano alterati. Arrivano le mosche. E’ un rigor mortis che dilata velocemente perché riversato su pelle viva e dinamica, quella dell’opera, che nasce come commedia buffa, sfiora di passaggio Non aprite quella porta e chiude in perversi giochini hanekiani. Senza occuparsi troppo dello scollamento narrativo/figurativo tra spezzoni, in certi casi ricomposto – il conturbante piano sequenza che collega Aleksey a Zurhov, l’uomo alla finestra – e in molti altri insoluto, ma focalizzando brutalmente sulla naturale pateticità di ogni credenza. Vedi Artem nel finale: “Vorrei qualche informazione sul rito del battesimo”. Evocato l’inferno in terra, intesa proprio come zona pavimentale, humus, terriccio (non a caso gli ubriachi schiantano al suolo), avvenuto il disfacimento umano, tutto ciò si può liberamente applicare alle sorti nazionali. Finale sociopolitico: i giovani che riflettono sul guadagno facile abbattono l’Urss e già entrano nella Russia di oggi, dalla contesa ideologica al conteggio capitalistico.