Avventura

CANTANDO DIETRO I PARAVENTI

TRAMA

La storia della piratessa Ching viene rappresentata in un teatro-bordello in cui uno studente capita per puro caso. La donna, fuorilegge dopo l’omicidio del marito che aveva ceduto alle lusinghe dell’Impero, diviene aspra nemica della corte e ne attaccherà le navi commerciali con conseguenze nefaste.

RECENSIONI

Give Peace a Chance

Olmi confonde linee e piani e, partendo dal teatro, approda al suo cinema sentimentale e contemplativo, allontanandosi dal precedente IL MESTIERE DELLE ARMI solo in senso geografico poiché, per il resto, la pellicola procede in maniera sostanzialmente analoga: attraverso quadri accostati, scene figurativamente ricche, dialogo stilizzato e dosatissimi movimenti di macchina. Quello che muta invece è la scelta del palese artificio della messinscena: la rappresentazione teatrale (la vicenda viene narrata su un palcoscenico e si muove da quello sugli esterni, privilegiando un registro di libera interpretazione, privo di schemi coatti) è utilizzata al dichiarato scopo di farne strumento per analizzare la vita, lo specchio nel quale il vissuto possa riflettersi fedelmente, quantomeno nello spirito se non nelle sue precise forme. Olmi gioca la carta Bud Spencer con la consapevolezza dello sdoganamento attoriale e fa leva sulla sua maschera per donare riconoscibilità carismatica al narratore e coprotagonista delle vicende narrate. In queste domina il confronto tra i pirati e le autorità, una contesa che vive su un piano di sostanziale lealtà, gli uni e le altre essendo fedeli al ruolo che il Fato ha disegnato per loro ("Ognuno è quel che è, noi siamo quel che siamo e ciascuno faccia quel che deve" dice a un tratto la piratessa): pur nelle ruberie, sottolinea la donna, il pirata infatti si mostra nudo e crudo, l'onesto fuorilegge che è, laddove tanti cittadini apparentemente rispettabili compiono abusi grazie a una falsa legalità che procura loro i sotterfugi necessari a farla franca. Ma sono proprio queste sottolineature a ingolfare un film che, modulato su frequenze favolistiche, pur contando su momenti di alta coreografia, smentisce l'impostazione austera con moraleggianti note a margine fin troppo enunciative. Al di là degli ottimi intenti, poi, anche la figura della protagonista che "cancella le leggi del cielo", non riesce a stagliarsi come dovrebbe, soffrendo di una certa frettolosità di tratto e patendo l'inerzia di un racconto che sembra affidarsi troppo a una messinscena impeccabile certo, ma per niente vibrante e che se può vantare una cura del dettaglio raramente riscontrabile nel cinema nostrano, soffre di una diffusa glaciazione che sfiora a tratti l'affettazione: gelo cosciente quanto si vuole ma che impedisce alla pellicola di far esprimere al meglio la vena personale e lo stile più alto del maestro bergamasco. Il film, che rinuncia programmatricamente a qualsiasi rappresentazione di violenza brutale, è dunque lodevole soprattutto per alcuni momenti (il suggestivo arrivo della flotta imperiale e i messaggi spediti con gli aquiloni) rimanendo fin troppo scoperto il discorso, che si vorrebbe sotteso, del pacifismo e dell'insensatezza della guerra, pur nell'inedita - e cattolica - prospettiva del perdono; questo conta più della guerra si dice nelle battute finali, la pace si può raggiungere con un piccolo gesto, col dissipare gli orgogli e ponendo in essere atti di temerarietà altra: la piratessa dimostra il vero coraggio, quello della resa, e salvando il suo equipaggio da morte certa, viene perdonata e riabilitata: la gente torna ad assaporare la pace sociale, le donne riprendono i loro canti dietro i paraventi. Peccato che nella preoccupazione di dire questo ci si dimentichi di accordare le parole al registro scelto, inciampando nell'ibrido involontario di una pellicola prolissa e diseguale.

Un pesce avvelenato diventa il fattore scatenante dell'ira che la neo-vedova Ching sprigionerà calpestando ogni regola e convenienza del codice piratesco. Gustosa carne allo spiedo costituirà il primo dolce momento di serenità dopo irrefrenabili parossistiche scorrerie. Eppure il nuovo film di Olmi, dopo la straordinaria parentesi del Mestiere delle Armi, non è né carne né pesce, ma un'approssimativa ribollita che ha il sapore stantio de Il Segreto del Bosco Vecchio: mescolando dramma e documentario, Olmi si lascia trascinare dall'intento didascalico e sommerge di retorica ogni parvenza di afflato lirico che tenti di emergere da meravigliose immagini di navi in bonaccia, fiumi tra natura incontaminata, aquiloni che planano dal cielo, nelle quali si può rintracciare l'impronta del miglior Herzog. Inoltre la linearità della storia, tratta da un fatto realmente accaduto nella Cina del primo periodo Qing, non aiuta il regista bergamasco a dare corpo alle sue tematiche predilette, tanto che per renderle pregnanti deve ricorrere alla parole, affettate e stranianti, dei suoi personaggi anziché alla forza di immagini ed ellissi che sbiadiscono con l'avanzare della pellicola; e a poco valgono i tentativi di rendere la narrazione più intrigante ed articolata attraverso l'alone di ambiguità del teatro bordello, l'oscura saggezza della tradizione aforistica cinese, e l'espediente intertestuale che, nonostante l'accentuazione didascalica dell'io narrante Bud Spencer, consente la realizzazione dell'idea più perfidamente convincente del film, mostrando gli azionisti e funzionari dell'apologo sempre "interpretati" dagli attori della rappresentazione, come per smascherarne la connaturata "falsità" di classe. Troppo poco per non deludere gli affezionati ammiratori del cineasta, che pur apprezzandone le nobili intenzioni e la forte spinta morale non gradiscono che vengano utilizzate come movente per reprimere e soffocare ogni respiro al suo magnifico cinema.

Poesia senza leggerezza

“Una storia vera che potrebbe essere una fiaba”, recitava il sottotitolo de La Cotta (1967): Olmi ha sempre avuto il dono della semplicità illuminante, ma nel convertire Il Mestiere delle Armi (di cui riprende i temi del perdono e del progresso, con l’ammiraglia senza vele che sostituisce il falconetto) agli occhi dei fanciulli (il ragazzino brufoloso, il bambino che attira il cuore di mamma della corsara), dimentica la leggerezza e la coerenza. Ci sono poesia (il titolo è preso da un verso di Yuentze Yunglun), pillole di saggezza orientale e immagini soavi, ma il coacervo di opposti annichilisce le buone intenzioni: semplificazione e intellettualismo, raffinatezza e imbarazzanti tocchi naïf (la sentinella che folleggia con la macchina da presa?), teatro brechtiano anti-spettacolare e messinscena kolossale, incanto evocativo ed esercizi di stile (la pellicola decolorizzata e accelerata), scelta di non-violenza (non c’è sangue) e feste di cannoni. C’è confusione: l’incipit felliniano (terribili voci dialettali in un bordello a forma di nave) ed il suo protagonista non portano senso, tantomeno è chiaro l’intento di Olmi nel momento in cui riempie lo schermo di sensuali corpi femminili (10 e lode al nudo guerriero di Carlene Ko); il messaggio di pace, infine, si perde in una scelta che resta “off”: il Signore della Guerra, dopo ripetuti inviti al castigo della farfalla ribelle, sceglie il perdono e non se ne sa il perché. Lo spagnolo Bud Spencer, unico attore professionista, ha l’invadente e scomodo ruolo di spezzare l’affabulazione per aiutarci a comprendere “il nostro vivere”: didascalie a parte, trattasi di indotto coitus interruptus (altro che Brecht!) dove Olmi libera le navi, l’eros e lo sguardo (quando la rappresentazione diventa realtà) e, regolarmente, li mortifica. Lasciano il segno le immagini: le battaglie navali nello splendore delle giunche a grandezza naturale, gli indugi paesaggistici montenegrini, l’evocazione delle voci muliebri che rallegrano il giorno (cantando dietro i paraventi), quando i filibustieri s’accampano felici nella baia. Circondati (non da ultimo dalla brutta farsa dei pirati che inscenano sul palco un processo), ma non attaccati, noi come i pirati restiamo attoniti di fronte alla calata degli aquiloni dal cielo (che poesia!): belli, variopinti, misteriosi.