Drammatico, Recensione

BIG FISH

Titolo OriginaleBig Fish
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2003
Durata125'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo di Daniel Wallace
Scenografia

TRAMA

Un giovane giornalista rientra in patria richiamato dalla malattia di suo padre. Il capezzale sarà l’occasione per riscoprire e comprendere la natura apparentemente sfuggente dell’uomo…

RECENSIONI

Tratto dall'omonimo romanzo di Daniel Wallace, Big Fish sembra essere la migliore opera che Tim Burton abbia mai realizzato con attori in carne e ossa. Il film porta a compimento numerose tematiche che caratterizzano la poetica del regista statunitense e che mai prima d'ora aveva saputo integrare, miscelare, e proporre con tanta delicatezza e dolcezza. Big Fishè più che un'epopea familiare che va a sistemarsi nella culla del folclore americano: è un saggio sulla pratica dello storytelling, sulla tradizione orale delle favole raccontate prima di dormire allo scopo di tranquillizzare o intorno ad un fuoco per terrorizzare. La dicotomia dei due ambienti, life e larger-than-life, è tracciata con decisione fin dalle prime battute della pellicola. Ma Tim Burton ci ha abituati alla mescolanza dei due mondi, a quella zona del crepuscolo in cui sembra che la magia possa penetrare nella realtà e confonderla, arricchirla, renderla cinematica. In questo mondo le streghe, i giganti, gli spiriti possono interagire con i figli del meridione americano, fatto di paesi di case basse ed imbiancate, di giornate torride, di paesaggi paludosi, e di una lingua che scivola dai confini dell'inglese per entrare nel mondo della tradizione cinematografica delle epopee sudiste. Le invenzioni visive si sprecano ma senza mai appesantire la narrazione che, piuttosto, è leggermente penalizzata da una colonna sonora troppo demagogica. Ma anche questo è un tipico aspetto del cinema d'oltreoceano, e forse quelle note sature di retorica servono il progetto che le contiene. Un grande film, insomma, la migliore espressione di un regista che, seppur continuando a lavorare alla stesse idee, a volte si è rivelato discontinuo e forse non interamente ispirato. Big Fish suona sulle sue corde con un grande cast che offre prove impeccabili. Uno su tutti Albert Finney, che nell'immobilità del suo giaciglio fa risuonare una voce ricca di tutte le sfumature che le storie che racconta assumono.

Edward Bloom ha fatto dell'arte di raccontare il colore della vita, trasformando la sua esistenza in una serie di aneddoti avventurosi e divertenti che ripete senza sosta ad amici e familiari. A tutti risulta simpatico perche' la sua fantasia e' contagiosa, ma il figlio, ormai trentenne, ha sempre vissuto traumaticamente il rapporto con una figura paterna cosi' piena di estro ma incapace di reale comunicazione. Tim Burton ci immerge ancora una volta nel suo mondo incantato, smussa il lato dark a favore di un grottesco gentile e lascia che sul film gravi il peso di una morale un po' indigesta. Non tutto fila liscio nella sua visione. La storia alterna momenti riusciti e geniali (il colpo di fulmine capace di fermare il tempo; il doppio incontro con la strega veggente; il gigante buono; la rapina in banca; la complicita' di marito e moglie immersi nella vasca da bagno) ad altri piu' deboli (l'atterraggio in Cina; l'arrivo nella cittadina di Spectre; il domatore nano licantropo; le gag del poeta Norther Winslow; la necessita' di affidare spiegazioni alla voce-off). La struttura narrativa cerca di evitare la monotona alternanza di realta' e finzione, moltiplica le soggettive del racconto e prova a spiazzare, ma il punto di arrivo e' presto identificabile e ogni tanto il meccanismo perde fluidita'. Gli interpreti sono tutti azzeccati, a parte il protagonista Ewan McGregor che dovrebbe trasmettere un candore a meta' strada tra "Alice nel paese delle meraviglie" e "Forrest Gump", ma si limita ad esibire una faccia giuliva priva di autentica vitalita'. La musica di Danny Elfman (storico collaboratore di Burton) cadenza piacevolmente la magia, mentre il direttore della fotografia, Philippe Rousselot, esagera con il flou. Su tutto aleggia una certa superficialita', con una sceneggiatura che sceglie con cura i momenti da raccontare (un po' come l'Edward protagonista) per suffragare la sua tesi: l'unico modo per rendere la vita sopportabile e' inventarsela. I rapporti familiari sono solo abbozzati e anch'essi piegati alla lezione da impartire, tanto che il ragionevole punto di vista del figlio viene totalmente sottomesso ad un trionfo dell'immaginazione che glissa sbrigativamente su un padre egoista e assente. Un personaggio incapace di ascoltare che se la vita reale ci appioppasse in ufficio, come compagno di scrivania, farebbe sorgere istinti omicidi piu' che giustificati. Se puo' essere vero che ognuno ha la vita che si racconta, Tim Burton estremizza lo sguardo e sceglie un registro fantastico per narrare episodi gia' di per se' straordinari (un nano domatore, due gemelle cinesi, un uomo alto piu' di due metri, non sono certo personaggi comuni) e perde di vista la straordinarieta' dell'ordinario. Lo diceva anche Zeno Cosini nel romanzo di Italo Svevo "La coscienza di Zeno": "La vita non e' ne bella, ne brutta, ma originale". E questa originalita', Burton la confina alla sola iperbole onirico-fiabesca. Comunque sia, ci si trova con gli occhi lucidi a leggere i titoli di coda. Merito di una commovente e riuscita sequenza conclusiva che trasforma la morte in un rito gioioso e riconcilia con il tentativo, sincero ma forzato, dell'eclettico regista di giustificare il suo bisogno di vivere (per sempre) attraverso il suo cinema.

Forse è vero che con Il pianeta delle scimmie (unanimemente detestato) Burton aveva venduto la sua anima di Pierrot al diavolo, ma il suo tornare a casa, per quanto auspicato e tutto sommato gradito, sembra esattamente quello che è (o è esattamente quello che sembra): la prevedibile riduzione di un romanzo che si attaglia molto bene alle sue corde, una fine ripulitura per una neoverginità autoriale. Peccato: al di là dei soliti, spudorati browninghismi (soprattutto quello circense di Freaks e The Unknown) e di alcune concessioni a una maniera solida sì, ma che di magico ha oramai soltanto il nome, Big Fish è solo corretto, strategico burtonismo di ritorno (anche le autocitazioni, numerosissime, vanno lette come una dichiarazione di intenti), pianificato a tavolino sottoforma di furbetta scommessa e mischiato a un po’ di inedita melassa. Le favole condiscono ancora la realtà (la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?) ma stavolta anche le puntate sul gotico risultano al servizio di un buonismo che rimane tale pur sotto la patina di (studiata) stravaganza, il gioco della rappresentazione nella rappresentazione è pura meccanica, quella della verità come risvolto della bugia (e viceversa) è teoria che non va oltre la pura enunciazione, limitandosi il regista alla sua esposizione consapevole. Big Fish mi sembra la compiaciuta applicazione di un paradigma  che oramai conosciamo a menadito, che mostra la corda e che (non solo per questo) ammorba anche un pochetto; un film opaco, spaccato in-decisamente a metà, e, nonostante il fondo mortuario, mediamente rassicurante (ben lontane sono le inquietudini dei due Batman e i sottotesti sulla diversità di un Beetlejuice o Edward Mani Di Forbice, opere imperfette quanto si vuole ma vibranti, in cui la fantasia di Burton azzardava viaggi in una terra di mezzo dell’anima, scomoda e inospitale). I tempi d’oro di Mars Attacks! (in cui l’armamentario già più volte sfoderato -  il camp, il B-movie, i classici del fantastico, la pop art  etc -  trovava finalmente sublime collocazione), poi, sembrano definitivamente finiti: Burton, dopo il flop scimmiesco, vuole salvare capra e cavoli e si guarda bene dal correre rischi, preferendo scarpinare dalle parti di Forrest Gump.
Piace (ed è forse giusto che piaccia) questo Big Fish, non mancandovi certo il mestiere e più di un pizzico di  passione, ma l’estro e l’ispirazione non fanno parte del pacchetto.

Ci è sembrato di sentire elogi francamente troppo squillanti nei riguardi dell’ultimo Burton, considerazioni che, personalmente, ci risultano fuori registro di qualche spanna, specie quelle che fanno riferimento a presunte continue invenzioni visive. A noi Big Fish è parso invece carente proprio nella messa in opera visiva di ciò che contenutisticamente si andava dispiegando. Ci è sembrato in sostanza che mai come in quest’ultimo film Burton sia stato paradossalmente avaro d’immaginazione, avaro di cinema, nella sua pur apprezzabile sobrietà e garbatezza demandando la trattazione del tema della mitopoiesi narrativa alla narrazione medesima. Si narra del valore e dell’importanza della narrazione, del raccontar storie, del non poter fare a meno da parte del genere umano di raccontare, della bellezza dell’affabulazione, di una stirpe di uomini segnati dalla sindrome di Sheherazade. Le architetture scenografiche tipicamente burtoniane di Batman (ma in quel caso era fin troppo semplice), Edward mani di forbiceIl mistero di Sleepy Hollow, le soluzioni straordinariamente visionarie, quel gotico (più che come orientamento estetico, come stile) come vero e proprio contrassegno dell’anima del cineasta, lasciano il posto all’edificio (meta)diegetico, decretando una insolita preferenza per la parola, per la volontà di strutturazione (meta)narrativa, piuttosto che per l’immagine, per il libero gioco della visione, del cinema. Affascinante per altri versi l’omaggio più o meno consapevole, più o meno desiderato, alla figura di Tod Browning, uno dei più memorabili “cantastorie” che il cinema (e non solo) abbia mai conosciuto, personaggio sospeso tra sogno e realtà, e a tutto quell’universo a lui carissimo (poiché coappartenente) di saltimbanchi dei cosiddetti Freakshow che costituivano le forme di spettacolo ambulante e che avevano preceduto e preannunciato le fantasmagorie dei primi cinematografi. E qui Burton è davvero all’altezza del suo mestiere nel descrivere (ora sì) iconograficamente quel circo di figure inquietanti e tenere allo stesso tempo, quella fiera delle diversità che aggiungevano colore allo sbiadirsi dell’esistenza dell’americano medio pre e post New-Deal. Una straordinaria galleria di personaggi strambi e differenti, apparentemente sinistri e fondamentalmente soli. Grande nell’esercizio ludico dell’adynaton, della figura retorica che più di ogni altra spiega di che materia sono fatti gli universi narrativi. Raffinatissimo ed esemplare il gioco metaforicamente visivo sul gigante Karl, inizialmente immenso, smisurato, costruito sul gusto ipertrofico della fiaba, che mano a mano che la storia (le storie) procede verso la possibilità di una fine, si rimpicciolisce sempre più contorcendo la sua smagrita e deforme figura su se stessa, fino a diventare quasi dolorosamente di dimensioni ordinarie nel momento più triste e sconsolato: quello del funerale di Ed Bloom. Film che in definitiva intende lavorare sull’elemento po(i)etico del vivere, distillando qualche rara incommensurabile sequenza (come ad esempio quella del girotondo o dell’inquietantissima Strega dall’occhio di vetro), risparmiandoci purtroppo la poesia del vedere.

Lettura meta- di Big Fish, facile facile: Edward Bloom è Tim Burton che racconta al mondo il suo (necessario) piacere di raccontare storie incredibili e letteralmente favolose. Così, se “quando racconti troppo spesso una storia diventi quella storia”, quando giri troppo spesso un film il tuo cinema diventa (solo) quel film. Appurato questo, Tim Burton ha visto bene di girare un film su questo suo film/cinema e di darlo in pasto ai suoi esegeti. Ne ha ricavato un’opera assolutamente seria (non c’è niente di tecnicamente soprannaturale in Big Fish), autocitazionista e marginalmente presuntuosa in cui si autoassolve dall’accusa di cercare l’incanto facile e a buon mercato senza mai affrontare la realtà (di nuovo, facilissimo e immediato il parallelo protagonista-regista, costretti entrambi a fornire una “versione ricamata” di un mondo-cinema altrimenti grigio e monotono). Detto ciò, Big Fish è uno dei più riusciti film di Tim Burton, in virtù soprattutto di una funzionale architettura a episodi: la frammentazione dell’intreccio in quadretti spesso incoerenti è quanto di meglio il regista possa chiedere a una sceneggiatura: libero sfogo alla fantasia e alle singole trovate visive, scarsa attenzione alla tenuta complessiva del racconto, campo nel quale Burton è sempre stato ben più che carente; non è infatti difficile scorgere comunque segnali di cedimento strutturale, lungaggini e sprazzi di tipica noia burtoniana, riscattati però da un finale di indubbia efficacia e nobilitato da una sincerità e un trasporto che mostrano un Bloom/Burton voglioso di uscire di scena come si conviene a un inguaribile, poetico contaballe. I fans non mancheranno di esaltarsi, tutti gli altri non sposteranno di una virgola l’idea che si sono fatti del buon Tim, qualunque essa sia.

Per Tim Burton, il figlio del racconto è come Batman, un introverso che reprime le emozioni; il padre è come Ed Wood, libero dai vincoli sociali. La sua opera è colma d’acqua, luce e neri profondi, passa dal pop anni cinquanta all’american gothic, da David Lynch a Federico Fellini. Attratto da sempre dal melodramma con (h)umor(i) macabri, dal mondo dei vivi che comunica con quello dei morti, dalle doppie personalità e dal tema della difficile integrazione, Burton torna (finalmente) a comporre un’opera profondamente personale e “libera” dalle costrizioni del blockbuster. Eterni ritorni della sua poetica: Spectre (la città dei fantasmi) è un mondo perfetto, con le casine colorate di Edward Mani di Forbice; il protagonista eccentrico sognatore è come Pee Wee, il film (più creativo e geniale di Big Fish, però) più richiamato nell’on-the road che passa con disinvoltura dall’horror alla satira al comico; la forma è quella dell’insolita biografia celebrativa alla Ed Wood che, sublimata nel fiabesco/grottesco, arriva ad esistere come soggettiva del protagonista sognante; come in Il Mistero di Sleepy Hollow, il figlio protagonista fa prima di tutto un viaggio alla conoscenza di se stesso, tornando un bambino impaurito dall’Inspiegabile, che è l’unica condizione naturale, quella della magia dell’infanzia, gettata nelle tenebre della ragione da qualche trauma.