Drammatico

BATTAGLIA NEL CIELO

Titolo OriginaleBatalla en el Cielo
NazioneMessico/Francia/Belgio/Germania
Anno Produzione2004
Durata98'
Sceneggiatura

TRAMA

RECENSIONI

Un Paese pigro, inetto, obeso ripiega mestamente la sua bandiera, si masturba davanti ad una squadra di calcio, si trascina in pellegrinaggio. Il film di Carlos Reygadas è un concerto di degrado a più voci, distrattamente afferrate nel vagare circolare di un’anima dannata. Il campo di questa battaglia celeste è un ginepraio di simboli squisitamente terreni, all’insegna di un realismo magico all’incontrario, dove l’apparizione è decadente (l’impagabile galleria iniziale di malati, zoppi, freaks), la religione è sofferenza (il coito alternato alle ferite del Cristo), il sesso è ghiaccio meccanismo. Abolendo l’inutile fatto, azzerando la trama con pervicacia, BATTAGLIA NEL CIELO è cinema che respira, registrando il fiato affanoso dei suoi personaggi, come un animale in gabbia che non troverà liberazione. Spalmato su dialoghi volutamente banali il plot si tuffa nei suoi attori straordinari – Anapola Mushkadiz è una ninfa della lussuria, Marcos Hernandez ci lascia senza una parola – e non risparmia nulla: tenace negli squarci dolorosi di vita quotidiana (il protagonista che si sfila il preservativo), menefreghista nell’esposizione del corpo umano senza fronzoli – Reygadas ricorda le statistiche sull’obesità in Messico, da qui l’amplesso di Marcos con la moglie -, addirittura sottilmente politico (i ricchi pisciano sul lavoro della servitù), crudele infine nel suggerire l’eventualità di un amore. Sul filo tra Buñuel (la ricca prostituta da BELLA DI GIORNO, il grave incombere della campana è puro TRISTANA) e la morte al lavoro, tra camera fissa e panoramica – stupenda quella che circumnaviga Marcos e Ana nell’atto sessuale -, l’opera è un pugno nell’occhio appena scalfito da qualche macchiolina (la sequenza di Marcos in campagna allunga il minestrone ma non rinforza il sapore) ma che resta, senza possibilità di replica, il boato più crudo degli ultimi anni. E non certo per la scandalosa scena finale a ripresa dell’incipit, devastante per coraggio e scioltezza rappresentativa, dove – come ha già spiegato Tsai Ming Liang – con un pene in bocca si può perfino parlare d’amore. Ma stavolta è solo per finta.