Drammatico, Western

THE FURNACE

TRAMA

1897, Australia occidentale. Per sfuggire a una dura esistenza e tornare a casa, un giovane cammelliere afgano fa coppia con un misterioso bushman in fuga con due lingotti d’oro da una dozzina di chili con il marchio della corona. L’improbabile coppia deve battere uno zelante sergente di polizia e i suoi uomini nella corsa per raggiungere una fornace segreta: l’unico posto in cui possono manipolare in sicurezza i lingotti rimuovendo il marchio della corona.

RECENSIONI

Alla ricerca del proprio passato e della propria identità, l'Australia non può che affidarsi al western. Il principio che guida tale assioma è interessante, pure romantico: tradisce se non altro una totale e indiscriminata fiducia nei confronti del linguaggio e della storia del cinema. Svela, nelle intenzioni, un abbandono totale ai significati universali che ogni genere porta con sé, anche quando è geograficamente lontano dal suo territorio d'origine. La mitologia della frontiera, lo spazio arido su cui verrà edificato il futuro di quelle terre, l'esplorazione e il complicato rapporto con le popolazioni native, l'ambiguità e la fallacia della legge e la violenza primordiale dello stato di natura, sono alcune delle costanti sulle quali il western ha costruito la sua storia e con le quali è impossibile non fare i conti, sia per certificarne la presenza sia, al contrario, per evidenziarne lo scarto.

Per portare alla luce la storia dimenticata dei cammellieri afgani, indiani e persiani importati nell'outback australiano dall'Impero Britannico nella seconda metà dell'800, l'esordiente Roderick MacKay si affida allora all'iconografia western, con tutto ciò che comporta e tutti i significati che questa scelta, naturalmente, veicola. E sarebbe pure interessante, pure romantico si diceva, se non fosse che l'operazione, a questo punto, si è già esaurita. The Furnace (così come Sweet Country, premio della giuria a Venezia 74; così come The Nightingale, in concorso a Venezia 75) ci ricorda ancora una volta che il genere non è solo un adesivo, un filtro, un tesserino di appartenenza e non basta rivisitarlo sulla carta per farlo davvero comunicare. Ciò che accomuna i tre film di cui sopra infatti, oltre al paese di produzione e ad un'adesione più o meno diretta al western (contaminato ora con il film d'avventura ora, nel caso del film di Jennifer Kent, con il thriller rape and revenge) è una messa in scena mediocre e soprattutto incapace di aggiungere senso ad un'operazione che per questo non riesce mai a superare le coordinate di partenza.

The Furnace, per esempio: non c'è un'immagine che basti a se stessa, tutto viene esplicitato con la parola. Perfino la tanto cercata dilatazione temporale, che certamente appartiene alla grande storia del western tanto quanto i valori di cui sopra, altro non è che un continuo susseguirsi di interminabili sequenze dialogiche, peraltro filmate e illuminate nel modo più banale possibile. Non una soluzione linguistica pregnante, non un primo piano, non un volto, un corpo o una postura quantomeno interessanti; ne esce un racconto terribilmente monocorde, in cui la prevedibilità narrativa è amplificata da quella stilistica (per esempio nell'alternanza tra momenti di stasi, grandi attese e improvvise esplosioni di violenza) e in cui si fa davvero fatica ad aggrapparsi a qualcosa che vada oltre le interessanti, pure romantiche si diceva, intuizioni iniziali.
Del genere restano la superficie e i valori fondamentali, rivisitati alla luce di un nuovo contesto geografico. Sotto però c'è il vuoto.