TRAMA
Nella cittadina di Winden nel 2019 il suicidio di un uomo e la scomparsa di due ragazzi sono solo alcuni degli strani fenomeni che influenzano la vita di quattro famiglie del luogo, le cui storie si intrecciano e interconnettono su tre piani temporali: il 1953, il 1986 e il 2019.
RECENSIONI
Sic mundus creatus est
Scegliendo di parlare di Dark l’approccio migliore è mettere subito a nudo il suo punto forte, ovvero la sua struttura.
La prima stagione di Dark si muove lungo 3 coordinate temporali: il 1953, il 1986 e il 2019. Queste tre linee, separate l’una dall’altra da 33 anni di distanza, sono connesse da un sistema di viaggio nel tempo - una sorta di incrocio - che permette lo spostamento solo ed unicamente in una delle tre linee temporali sopraindicate. È una struttura rigida che permette di avere una certezza di sguardo: lo spettatore sa che ove si poserà il suo sguardo sarà certamente su una di quelle tre date senza possibilità di date intermedie.
In un sistema complesso come questo dove un bambino del 2019 può essere un adulto nel 1986 è fondamentale avere un solido piano cartesiano che ci permetta di leggere con immediatezza i dati che ci vengono mostrati. E qui giungiamo al secondo punto forte, il linguaggio.
Le tre linee temporali sono infatti perfettamente connotate da fotografia, scenografia e costumi diversi, caratteristici e direttamente riconducibili ognuno alla sua linea temporale. Dove eccelle Dark è nel rendere accessibile una struttura complicata e una narrativa ingarbugliata attraverso l’uso di un linguaggio cinematografico ben preciso che rende sempre comprensibile il contorto svolgimento. Questo grazie a un uso preciso di semplicità di linguaggio che ha la sua massima espressione nell’uso del montaggio: lo stacco di montaggio sullo stesso personaggio, che lo rende immediatamente riconoscibile indipendentemente dal tempo in cui si trova, dall’età che ha o da che attore lo interpreta in quel momento, è il metodo più semplice e allo stesso tempo più efficace per permettere allo spettatore di trovarsi costantemente a suo agio nel decodificare le informazioni visive che gli vengono proposte senza dover ricorrere a linee di dialogo superflue e ingolfanti che appesantirebbero eccessivamente una sceneggiatura già così adeguatamente abbondante.
Al di là degli echi derivati e riusciti di trama e intreccio debitori di Twin Peaks e di una fascinazione per una fantascienza adolescenziale parzialmente incentrata sul revival anni ’80 sulla scia di Stranger Things è in questa unione di complessità di struttura e semplicità di linguaggio (visivo) che trova la sua straordinaria efficacia Dark.
Ed è nel nono episodio della prima stagione che Dark raggiunge il suo apice stilistico nella sequenza che vede Jonas tentare di evadere dal secondo bacio con Martha, ora conscio del fatto che lei è sua zia. Il pianosequenza del piano a due incornicia uno dei paradossi più peculiari della serie, una situazione che mette in dialogo le circostanze improbabili che si creano nel fluire non lineare del tempo - in un’inquadratura, un pianosequenza appunto, che è fluire lineare del tempo stesso - e una condizione statica da cui è difficile evadere - il piano a due è perlopiù fisso - in contrasto con il fluire di sentimenti che il tempo e gli eventi ha generato, mostrando la continuità e il peso del tempo nell’obbligato rifiuto.
Tutto in un’unica inquadratura in una serie che, per contro, della frammentazione del tempo attraverso l’uso del montaggio fa la sua arma principale.
Irgendwie, irgendwo, irgendwann
Ogni stagione introduce nuove meccaniche, anticipate alla fine della precedente ed approfondite nel corso della successiva.
Le 3 linee temporali della prima stagione diventano 5 nella seconda aggiungendone una successiva e una precedente di 33 anni alle 3 della prima stagione. Le 5 linee temporali della seconda stagione diventano 6 nella terza; inoltre viene aggiunta una realtà alternativa che ha a sua volta due linee temporali, quella presente e quella futura. Come se non bastasse viene anche proposta una resa del paradosso di Schrödinger che riserva un’ulteriore biforcazione di possibile esistenza o meno ai personaggi di Jonas e Martha, manifestazioni del loro essere contemporaneamente sia vivi che morti a seconda dell’apertura o meno della “scatola”.
La fine è il principio. Il principio è la fine.
Nel corso della seconda stagione si fa sempre più strada la sensazione di andare incontro a qualcosa che si sa già come andrà a finire. Del resto è una delle frasi-chiave della serie “La fine è il principio. Il principio è la fine.” che, ripetuta infinite volte, suggerisce fin troppo marcatamente il punto d’arrivo. O quello inizio. Ma tanto è lo stesso.
Ci si trova davanti a un andamento narrativo a spirale, dove da un lato tutto si allarga - i personaggi coinvolti, le linee temporali, le realtà alternative - ma dall’altro tutto sembra convergere - o meglio collassare - verso un centro in cui la libertà narrativa è un puro pretesto prima di arrivare al punto. Lo show avrebbe potuto durare una stagione in meno, o cinque in più.
La sensazione di non capire cosa stia succedendo alle due Martha alternative, manifestazioni del paradosso di Schrödinger con le cicatrici speculari, è dovuta a una voluta ma gratuita mancanza d’aiuto sintattico nella presentazione volta prima a confondere e a far interrogare lo spettatore che rischia di non capire niente, salvo poi riservargli un colpo di scena che lo costringa a riguardare il già visto per averne una comprensione migliore. Per questo motivo spiace vedere svilita nel corso della terza stagione la perizia esercitata nella prima, attraverso l’introduzione di elementi sintattici a dir poco discutibili; su tutti l’effetto warp, posticcio e di rara bruttezza, che accompagna la transizione tra una realtà e l’altra. E l’intelligenza mostrata nel pianosequenza sopracitato trova il suo contraltare nella demenzialità del pianosequenza del primo episodio della terza stagione che introduce la quotidianità (specchiata) di casa Kahnwald nella realtà alternativa, totalmente ingiustificato da un punto di vista sintattico, fuori luogo con la linea linguistica dell’intera serie.
Dark è per certi versi paragonabile a Lost nel suo continuo espandersi, ma dove in Lost tutte le tante domande insolute soccombono difronte a un disegno generale più grande che tutto giustifica, anche l’ingiustificabile, in Dark, dove tutto viene costantemente giustificato, ci si avvicina sempre più alla sensazione di voler solo continuare a giustificare un accumulo d’intreccio che ha esaurito la sua espansione filosofica alla fine della prima stagione e si rischia di trovarsi davanti a uno sterile unire i puntini. In tal senso peculiarità e rigore vengono definitivamente meno quando lo sguardo spazio-temporale dell’osservatore diventa generalizzato, ovvero nel settimo episodio della terza stagione, quando vengono colmati i tasselli mancanti scrutando in qualsiasi anno e contravvenendo alla regola dell’osservazione solo negli anni specifici in cui il viaggio temporale è concesso nell’ipotesi. Si evade dalla rigida struttura ma si rinuncia alla peculiarità che è prima di tutto una peculiarità di sguardo.
Eppure il guizzo finale riabilita parzialmente l’abitudine che è andata via via consolidandosi nel corso della seconda e soprattutto della terza stagione di un preciso ma autocompiaciuto e poco stimolante ricollocare al loro posto le tessere di un puzzle. Una volta tirate le fila di tutto, al termine dell’unione dei puntini c’è ancora spazio per un salto, per l’introduzione di una terza realtà, quella d’origine. Dark cambia forma più volte: quella che in un primo momento sembra una rappresentazione non lineare ma circolare del tempo si complica in un secondo momento, dall’introduzione della realtà alternativa, e può essere rappresentata come un nastro di Möbius, fino ad approdare, nel finale, a una bolla (contenente il nastro di Möbius, contenente la circolarità del tempo) che vive gli echi della realtà d’origine che l’ha generata e che una volta chiusa finirà a sua volta per influenzarla. Passando più volte per esplicite citazioni di Matrix, passando per un tesseratto molto simile a quello di Interstellar, c’è ancora spazio per creare una serie di rimandi e parallelismi interni in grado far capire che tutti i mondi e le linee temporali sono trasfigurazioni del mondo d’origine - basti pensare all’incidente automobilistico di Helge che uccide se stesso sulle note di Irgendwie, irgendwo, irgendwann di Nena, brano a cui non a caso sarà affidato il compito di accompagnare i titoli di coda, confrotato all’incidente di Marek Tannhaus - e per assumere che quello che ci troviamo davanti sia davvero l’ultimo ciclo, che è solo un punto in una rappresentazione del tempo che, a conti fatti, è lineare. C’è ancora spazio per una presa di coscienza, per l’accettazione di un senso di colpa che porta a smettere di reiterare l’errore, a sciogliere il nodo, a districare la matassa e ad andare avanti.