Video

VIDEOCLIP ANNI DIECI: UNA DECADE DI VIDEOMUSICA/2

NARRATIVO

Iron Sky (Paolo Nutini)
diretto da Daniel Wolfe, 2014
Wolfe continua a girare film in forma di videoclip, continua a farlo alla sua maniera, virando nel genere le sue ricognizioni nelle ansie contemporanee, che sia il thriller, il musical, lo psicologico, l’action, la tragedia sociale. Iron Sky è un potente affresco di vaga marca sci-fi, che partendo da una libera interpretazione delle liriche di Nutini, perviene a una visione apocalittica di un futuro possibile (ma il finale sembra affidare alla preghiera la speranza di un mutamento), abitato da un’umanità abbrutita e disperata, soggetta a un regime autoritario (la voce di Charlie Chaplin campionata nel brano, proviene non a caso da Il grande dittatore). Composizione visiva sontuosa (il grande Robbie Ryan alla direzione della fotografia) per uno dei video più celebrati del decennio.

Love Is All I Got (Feed Me & Crystal Fighter)
diretto da Us, 2012
Video sottovalutatissimo, consacrò il duo americano Us come una delle realtà videomusicali più interessanti in circolazione: la preparazione di un costume di supereroe da parte del protagonista, accompagnata da una serie di sequenze di tenore ambiguo (l’allenamento, l’inquadratura del giovane in tuta con lo sfondo della città, l’incrocio con una ragazza al negozio) porta chi guarda a immaginare tutto tranne quella che è la conclusione più logica, che arriva, quindi, paradossalmente inaspettata. È una riflessione molto acuta sui paradigmi su cui si fonda il nostro immaginario – e sui passaggi quasi obbligati ai quali è oramai soggetto – che viene condotta con delicatezza attraverso un racconto apparentemente privo di teoremi.
Tra i migliori narrativi del decennio per concezione, semplicità & stringatezza, equilibrio con la traccia musicale, gioca con una delle costanti del collettivo americano, il tradimento delle aspettative dello spettatore (una volta tanto però sul piano del racconto).
Nello stesso anno anche questa bella cosa per NOWNESS.

Everyday (A$ap Rocky)
diretto da Emmanuel Cossu x Fleur & Manu, 2015
A Hip Hop Hollywood Story: si comincia dalla morte in piscina (Viale del Tramonto di Wilder), e si chiude à la C’era una volta in America, con il sorriso stolido del protagonista, stordito dagli oppiacei che, come il personaggio interpretato da De Niro, forse si è sognato tutto. Nel mezzo la storia di una star dell’hip hop, oramai vecchia e ingrassata, sfigurata dagli interventi di chirurgia estetica, che – Norma Desmond, nella sua villa regale – si riguarda i filmati del bel tempo che fu. Il trip di A$ap Rocky percorre il passato, attraversa il presente e si spinge, visionariamente, al decadente futuro: i ricordi sono illusioni, il tempo vissuto un’ipotesi (ironica? consapevole?) da avvalorare o respingere.
Vive di nostalgie artificiali l’ennesima strizzata d’occhio citazionista di Emmanuel Cossu, nel preludio della fine del sodalizio con Fleur Fortuné.

I Had This Thing (Röyksopp)
diretto da Roboshobo, 2015
La love story incrocia la science-fiction: quando l’addio è un’apocalisse. Gli strascichi della separazione testimoniati attimo per attimo mentre la rottura fa crollare il mondo intero. Narrazione straordinaria per scrittura, tenuta, tensione emotiva. Montaggio e regia fanno il resto. E la canzone incolla tutto e sigilla la chiusura tragica: una volta tanto il rimorso trionferà e non ci sarà lieto fine.
Chiusura sbam:
I never meant to let you go
I never meant to let you go
I never meant to let you go
I never meant to let you go

Born To Die (Lana Del Rey)
diretto da Yoann Lemoine, 2011
Primo livello: Lana Del Rey in una sontuosa cattedrale (siamo nella reggia di Fontainebleau), seduta su un trono, canta la sua passione proibita. Secondo livello: la fuga notturna della protagonista con un ragazzo evidentemente non gradito alla famiglia di lei, un viaggio in auto dominato da una pesante atmosfera: quando arriva il lungo bacio della riconciliazione, che fa distogliere lo sguardo del boyfriend dalla strada, giunge anche, non mostrato, l’evento esiziale. Dopo una nuova sequenza ambientata nel primo grado – in cui la cantante è in un corridoio barocco e si avvicina ad una porta che si apre su una luce accecante -, si mostra il giovane che ha tra le braccia il cadavere della ragazza.
Da un lato la vita terrena, dall’altro il Paradiso kitsch che Lemoine ha immaginato per l’eroina della narrazione. Tanti i riferimenti cinematografici (da Gioventù bruciata a Cuore selvaggio), esaltati dallo splendido lavoro fotografico di André Chémétoff che satura i cromatismi e impronta su un elementare quanto intenso gioco di luci e ombre la bidimensionalità della rappresentazione.
Di Lemoine anche la cosciente e ricercatissima maniera di Blue Jeans: mollezze spottistiche in ralenti, glamour hollywoodiano come piovesse, bianco e nero in odor di Bruce Weber, creazione in laboratorio di un’immagine “divina” da appiccicare a Lana Del Rey. Deliqui onirici e orgasmi reali (l’ambiguità è ancora lynchiana) nella strenua dilatazione dei tempi. Dietro c’è una storia con un bad boy: il suo abbraccio nell’acqua, con i coccodrilli simbolici a segnalare il pericolo, si rivela mortale. Realtà? Sogno? Simbolo? Fotografia di Rodrigo Prieto.

Coronus, The Terminator (Flying Lotus)
diretto da Young Replicant, 2015
Young Replicant (dopo la collaborazione con Joe Nankin, ora il solo Alex Takacs) si è imposto come una delle firme decisive per il narrativo anni 10: video riconoscibili, caratterizzati da congegni a chiave, lavori che per essere decifrati richiedono programmaticamente una revisione. In essi ha un ruolo decisivo un’iconografia inquieta e misteriosa, che si dispiega in apologhi volutamente ambigui, ambientati in epoche indefinite, in cui c’è sempre un’apparenza da squarciare e labile risulta il confine tra sogno e realtà. Sprazzi metafisici, echi fantasy e immagini ricorrenti li ritroviamo fin dal primo successo Lovely Bloodflow per i Baths, che vale come un manifesto. Una firma che ha saputo muoversi in atmosfere musicali sempre coerenti con i mondi che riusciva a creare (non a caso artisti come The xx, alt-J e Purity Ring vantano più di una collaborazione). In questo clip per Flying Lotus il senso di colpa di un padre si elabora in una visione onirica, sul letto di morte, mentre i fantasmi del passato, tornati, danzano aspettando la fine.

Blonde Fire (The Hickey Underworld)
diretto da Joe Vanhoutteghem, 2010
In Blonde Fire il registro truculento viene sublimato dal certosino lavoro sulle carcasse umane svolto dal protagonista che, in un classico scantinato degli orrori, assembla una serie di catatoniche creature frankesteiniane che fungeranno da rockers e pubblico di una macabra performance musicale: se il rock è morto e la sua rinascita un’utopia, la messa in scena del suo rituale non può che affidarsi alla ri-composizione di cadaveri, alla riesumazione, come lugubre perversione necrofila, dei feticci di una stagione tramontata.

College Boy (Indochine)
diretto da Xavier Dolan, 2013
qui

In Radio (Marracash)
diretto da Cosimo Alemà, 2015
Un clip in linea con i tempi, con sottile ritratto d’ambiente, narrazione verista in filigrana e un bel finale.

Free (The Editorial Me) (Darwin Deez)
diretto da Ninian Doff, 2012
Darwin Deez, commesso di uno store, è intrappolato nello stesso momento temporale che si ripete immutabile. Cosciente di essere vittima di un loop che rischia di perpetuarsi all’infinito, tenta di uscirne. Video che ribadisce la tendenza del regista a un’ingegnosa concettualità associata alla narrazione di produzione a budget tendenzialmente contenuti, in cui l’uso dell’effettistica risulta sempre decisivo quanto pertinente, Free sancisce, al di là dell’ovvio riferimento al film di Harold Ramis Ricomincio da capo, la devozione delle nuove leve di videomaker ai modelli degli anni 90. Mostrando come i profondi mutamenti che la golden age ha operato sul mezzo abbiano completamente modificato il modo di pensare il mezzo, il video indica, in particolare, come le soluzioni di Gondry (in questo caso il loop in accumulo) siano state elevate a vera e propria sintassi.

No Room For Mistake (Murder)
diretto da William Stahl, 2011
William Stahl ha lavorato sulla rivoluzionaria e definitiva subordinazione della traccia musicale alle istanze video. Lo ha fatto costruendo clip con narrazioni forti, al punto da non rendere possibile distogliere l’attenzione spettatoriale dalle storie, attenzione che mal si concilia con l’ascolto del brano musicale. No Room for Mistakes dei Murder è clip quasi tutto di parola (sceneggiatura del sodale Michael Vogt), per quanto muta e sancita dai sottotitoli, senza paura, dunque, di rendere ignorabile il brano, concentrati, come si è, a seguire l’evoluzione del racconto. Un’esperienza creativa coraggiosa che, alla luce dell’evoluzione del linguaggio videomusicale degli ultimi anni, si è rivelata avanguardistica.
Qui la mia intervista al regista.

Pleader (alt-J)
diretto da Isaiah Seret, 2017
Seret è uno dei più personali e ispirati narratori degli ultimi anni. La storia, solo in apparenza enigmatica (vedere e rivedere…), nasce da un’idea di Joe Newman, il chitarrista del gruppo, sviluppata dal regista in un lavoro che si ispira, come il brano, al romanzo Com’era verde la mia valle e a Sacrificio, il film di Andrej Tarkovskij.
Siamo in un villaggio di minatori gallese che sembra essere destinato, per un’oscura maledizione, a essere distrutto. Per evitarla il consiglio decide di far dare alla luce un figlio a una donna che sembra dotata di poteri sovrannaturali: essendo suo marito sterile, la si fa accoppiare con un altro uomo. Ma la nascita del bambino non impedisce la catastrofe: un meteorite cancella il villaggio. Il bambino, unico sopravvissuto, è allevato in un collegio dove è vessato per le sue umili origini. Sorretto dal pensiero del luogo natio, proprio attraverso quel canto che apparteneva alla sua gente – che, raccolto in una registrazione, verrà cantato dal coro scolastico – preserverà il ricordo di una civiltà («How green, how green was my valley?/ To be told of such hills/ To be held in such spots/ To behold such warmth/ Call to arms these harmonies!»).
Seret conferma il suo debole per i racconti ambientati in piccole comunità, soggette a regole e a logiche che rimandano ai concetti di ordine e autorità. In questo caso fa snodare la vicenda portandola fuori dal microcosmo iniziale, seguendo il percorso del protagonista fino alla ricongiunzione con le sue origini. E lo fa con un promo che ha il respiro di un cortometraggio, soffermandosi sui dettagli (il lavoro in miniera), restituendo le caratteristiche di un ambiente e dando alla canzone rilievo diegetico, associandovi sentimento e forza evocativa. Incorporandola nell’opera con naturalezza commovente.

Gold (Chet Faker)
diretto da Hiro Murai, 2014
Oggi un video si fa così: per strada, con tre ballerine sui rollerball (coreografia di Ryan Heffington!) e una narrazione solo accennata che scatena una ridda di ipotesi (la macchina incidentata, il cervo: come in Simple Math dei Daniels…). Un mystery. Forse. Un capolavoro. Certo.

Signora (Edda)
diretto da Fabio Capalbo, 2017
Nei videoclip di Capalbo tutto diparte da uno sguardo che, processando il quotidiano, detta la prospettiva della rappresentazione, fa intuire la narrazione, impone i simboli su cui si regge la messa in scena.

Cool Song No. 2 (MGMT)
diretto da Isaiah Seret, 2013
Il protagonista (The Plant Hunter) è alla ricerca di una misteriosa droga ottenuta da un cactus e da far assumere al suo compagno Tree (è interpretato da Harry Hopper, figlio di Dennis -), oramai soggetto a una trasformazione dovuta all’abuso della sostanza. Se il video, la cui storia si sviluppa su un binario tragico che culmina nel bellissimo finale, afferma da un lato delle istanze naturalistiche – che strizzano l’occhio a molto cinema (si pensi, tra l’altro, al Refn “americano”) e alle serie tv (il protagonista è, non a caso, Michael K. Williams, che proviene da The Wire) – dall’altro le incrocia a suggestioni vagamente sci-fi, in un video che si assoggetta, come mai prima per Seret, alle marche di un’estetica vistosissima, in cui il dato cromatico risulta spiccato (direzione della fotografia di Bradford Young), così come la resa delle atmosfere e delle geometrie degli ambienti. Un realismo visionario, quello di questo lavoro, che si fonde alla perfezione con le atmosfere del brano.

Chained To The Rhythm (Katy Perry)
diretto da Mathew Cullen, 2017
Il sodalizio Katy Perry – Motion Theory è una certezza e con questo quarto capitolo (il primo e il terzo ancora con la regia di Cullen, il secondo diretto da Grady Hall e Mark Kudsi) raggiunge il suo apogeo: la compagnia californiana partorisce un nuovo universo riconoscibile come la giungla kiplinghiana di Roar o l’antico Egitto disneyano di Dark Horse (in tutto quattro miliardi e passa di view), ma sottilmente inquietante e sotto il quale ribolle una vena esistenzialista.
Dietro l’apparente gioiosità di un luna park fatto di attrazioni colorate e innovative, sponsorizzato dai Pokémon, si cela la lugubre rappresentazione di una società inquadrata: si chiama Oblivia (come l’arcipelago in cui risiedono molti Pokémon, nome che fa diretto riferimento all’oblio e all’incoscienza) e le sue giostre hanno nomi come The Great American Dream Drop (le sue cabine sono altrettante case perfette in cui le coppie vengono incapsulate) e Love Me (le montagne russe del menage passano attraverso le reaction di Facebook e prevedono punteggi a forma di cuore).
Mentre gruppi di persone vagano, ipnotizzate di fronte al proprio tablet, e alcuni individui vengono semplicemente catapultati fuori dai confini del parco, a turno, come criceti in gabbia, gli avventori corrono su una ruota garantendo l’energia-lavoro al sistema. E la sera ci si riunisce davanti al grande schermo per vedere lo straordinario spettacolo in 3D, A Nuclear Family, in cui una famiglia modello, nel suo borghesissimo salotto, rispetta tutti i luoghi comuni conservatori: di fronte al gigantesco televisore la moglie stira, il marito legge il giornale, la bambina disegna, mentre il pubblico si muove in perfetta, catatonica sincronia, a ritmo con la musica. È in quel momento che la sempre più titubante Perry ha il suo momento di illuminazione, che corrisponde, ovviamente, al featuring rivelatorio di Skip Marley che esce dallo schermo, a lei solo visibile, e afferma che il tempo per l’impero sta scadendo e che il momento della rivoluzione è vicino. È solo un attimo, poi si riprende con il tran tran obnubilante nel quale Katy si agita chiedendo attenzione. Quando sarà il suo turno di far girare la ruota deciderà di fermarsi. Il suo sguardo, consapevole della gravità del gesto, chiude il video.
Non c‘è rosa senza spine: nel mondo colorato di Katy Perry si è aperta una crepa, il tempo dei sogni vira verso l’incubo, lo spettro trumpiano si è allungato fino alla porta della sua favola. Altro che Black Mirror.

Nobody Speaks (DJ Shadow ft. Run The Jewels)
diretto da Sam Pilling, 2016
Si rappa alle Nazioni Unite, e a differenza di Two Tribes dei Frank Goes to Hollywood (diretto da Godley & Creme, 1984), in cui Reagan e Chernenko se le davano di santa ragione, finisce a farsi male davvero.

Bitch Better Have My Money (Rihanna)
diretto da Robyn Rihanna Fenty & MEGAFORCE, 2015
Tratto da una storia vera: quella dell’amministratore che truffa Rihanna (fine). Da lì una canzone con cui si esige la restituzione del maltolto e un video, questo, che traduce in immagini la fantasia vendicativa e omicida della cantante nei confronti del mascalzone. La aiutano i MEGAFORCE. Le loro fisse cinefile (Faster! Faster! Pussicat!, Thelma & Louise, Carrie, e altre ancora: vediamo quante citazioni riuscite a indovinare…) e il loro effervescente apparato visivo assicurano forza e ironia alla provocazione di Rihanna che usa il video come la Madonna dei tempi d’oro: veste i panni di un personaggio che sarebbe se stessa, finto nella verità e vero nella finzione.
Promo sintomatico di una tendenza (la videomusica 2015 era piena di badass che combattevano, pretendevano ciò che era loro, si confrontavano con l’uomo senza complessi e senza complessi prendevano iniziative estreme: da Taylor Swift a Lara Del Rey) e oggetto di polemiche oziosissime (e quindi assai utili alla causa commerciale e alle view del Tubo) su misoginia, violenza, nudità e altri simili barbosissimi e telefonatissimi specchietti per le allodole. Tutto nella norma: c’è un topo (topic?) che non corre e un gatto che non lo rincorre. Alla fine tutti contenti, utenti compresi: è la rete, bellezza.
Con Mads Mikkelsen, Eric Roberts e Rachel Roberts.
E no, qui non c’è l’oramai modaiola tendenza a ricalcare Gaspar Noé: gli è che la fotografia del clip è di Benoît Debie, il deus ex machina (da presa) del regista argentino (e non solo).

Golden Light (Blonde Redhead)
diretto da Virgilio Villoresi, 2017
Onirismi predigitali che parlano di un amore simbiotico, che può anche essere quello tra Villoresi e la sua arte-vita: VV è sempre il demiurgo che muove le fila, colui che sceglie una tecnica (in questo caso la RGB) e la applica dichiarando di applicarla, mostrandola al lavoro. Narrazione e teoria si muovono sulla strada dello stesso intimo incantesimo.

Bandits on Mars (Calibro 35)
diretto da John Snellinberg, 2015
Spaghetti western e fantascienza di serie B, John Carpenter e Mario Bava, i robot di Crichton e l’estetica pop di Barbarella. Ma soprattutto John Snellinberg e Calibro 35: il videoclip come inventario di stili di cui si nutrono entrambe le passioni, quella per la musica e quella per il cinema.

Disintegration (Monarchy feat. Dita Van Teese)
diretto da Roy Raz, 2013
Raz apparecchia una classica, eppur originalissima nei toni, rappresentazione di una fantasia erotica: la casalinga anni Cinquanta, frustrata da una vita familiare codificata e rigida, si sogna pin up dirompente alle prese con due amanti mascherati in una camera d’albergo. Il set di Raz è, al solito, geometrico ed inquietante (il quadretto familiare è marmorizzato, mentre i muri crollano), giocato su immagini evocative (il cervello di lei come ammasso orgiastico di corpi nudi che si attiva con il crescere del desiderio; le coreografie à la Busby Berkeley anch’esse in sincrono erotismo) e in costante evoluzione (la protagonista che stira – e l’asse prende fuoco -; che cucina – e le pietanze si carbonizzano in time lapse -). Non manca il tocco ironico: la zanzara che punge la protagonista in estasi è simbolo ovvio quanto ironico della penetrazione, tema ripreso ancora felicemente dal finale (il marito spiaccica l’insetto sulla tavola e mortifica il desiderio). Raz insomma non smentisce la sua ricercatezza e anche quando gioca su immaginari abusati (Dita Von Teese – come Betty Grable – ripresa in upskirt) riesce a lasciare sempre in bella evidenza la sua firma, non rinunciando alle sue derive surreali e all’ormai testatissimo décor.

IN ANIMAZIONE

I clip animati continuano a costituire una fetta sostanziosa della videomusica: anche negli anni Dieci i risultati artistici sono di qualità straordinaria. Difficile e spietata la selezione che ho ridotto dolorosamente a soli 20 titoli (di 20 diversi registi), tutti egualmente imperdibili. Dai maestri Kijek & Adamski (una videografia semplicemente pazzesca), ai francesi Pleix, Bif e Perin, gli italiani Bernardi, Lumaca, D’Elia e Sansone e il britannico Wilson (il capolavoro per gli Arctic Monkey). Passando per vecchie (Hopewell, Romanek, Pecknold, Encyclopedia Pictura) e nuove conoscenze (Pablo Mengin). Buona visione.

Katachi (Shugo Tokumaru)
diretto da Kijek/Adamski, 2013

Green (Azel Phara)
diretto da Bif, 2015

Aydin (Discodeine)
diretto da Pleix, 2013

The Shrine/ An Argument (Fleet Foxes)
diretto da Sean Pecknold, 2011

I destini generali (Vasco Brondi – Le luci della centrale elettrica)
diretto da Michele Bernardi, 2014

Fantasy (Dye)
diretto da Jérémie Perin, 2011

The Story of O.J. (Jay-Z)
diretto da Mark Romanek, JAY-Z, 2017

T69 Collapse (Aphex Twin)
diretto da Weirdcore, 2018

Boys Latin (Panda Bear)
diretto da Isaiah Saxon e Sean Hellfritsch, da Encyclopedia Pictura, 2014

Cromatica (Marta sui Tubi feat. Lucio Dalla)
diretto da Bruno Mezzacapa D’Elia, 2012

Ma’agalim (Jane Bordeaux)
diretto da Uri Lotan, 2016

Di domenica (Subsonica)
diretto da Donato Sansone, 2014

Do I Wanna Know? (Arctic Monkeys)
diretto da David Wilson, 2013

Feels Like We Only Go Backwards (Tame Impala)
diretto da Joe Pelling and Becky Sloan, 2012

Semplicemente (Bluevertigo)
diretto da Luca Lumaca, 2016

The Magician (Andy Shauf)
diretto da Winston Hacking, 2016

Things It Would Have Been Helpful To Know Before The Revolution… (Father John Misty)
diretto da Chris Hopewell, 2017

Scandal (Bashton & Megalopolis)
diretto da Pablo Mengin, 2018

The Waves (Villagers)
diretto da Alden Volney, 2012

All I Can Think About Is You (Coldplay)
diretto da I Saw John First, 2017

COMMISSIONING ARTIST

Lana Del Rey

Molto facile individuare il commissioning artist del decennio: la sua onnipresenza in tutte e quattro le parti di questo speciale sa di vera consacrazione. Lana Del Rey non ha solo costruito un personaggio, non gli ha semplicemente cucito addosso un repertorio musicale coerente e una poetica inconfondibile – che mischia mitologia americana vecchia e nuova e la Hollywood sirkiana con quella di David Lynch – , ma ha fatto del video, come nella tradizione delle più grandi videostar (David Bowie, Madonna, Björk, Britney Spears) il mezzo per dare testimonianza dell’evoluzione e del cambiamento della sua persona. Il videoclip non è un semplice accessorio per Lana Del Rey, non è un puro mezzo promozionale, è una modalità espressiva che ha pari dignità rispetto a quella musicale, un linguaggio artistico che si intreccia con gli altri, un altro modo per dichiararsi (lo dice anche il numero di video autodiretti). Nel suo catalogo non ci sono clip secondari o di puro servizio: tutto è studiato, curato, consapevole, significativo. Lo dice anche la scelta ponderata delle firme e la sua varietà, che hanno determinato una quantità esaltante di versioni differenti, quanto plausibili, di un’identità artistica: in quel caleidoscopio autoriale, paradossalmente, essa è sempre riconoscibile.
Qui un approfondimento su Lust for Life, di seguito una selezione di 10 video non citati altrove:

Video Games diretto da Lana Del Rey, 2011
Summertime Sadness diretto da Spencer Susser, Kyle Newman, 2012
Blue Velvet diretto da Johan Renk, 2012
Ride diretto da Anthony Mandler, 2012
Young and Beautiful diretto da Chris Sweeney, Sophie Muller, 2013
West Coast diretto da Vincent Haycock, 2014
Shades of Cool diretto da Jake Nava, 2014
Ultraviolence diretto da Francesco Carrozzini, 2014
Music To Watch Boys To diretto da Kinga Burza, 2015
Love diretto da Rich Lee, 2017

TOP 50
seconda parte (da 40 a 31)

# 40
Parentesi (Meg)
diretto da Uolli, 2017

Se c’è una via originale al videoclip italiano passa da un lavoro come questo, che nasce da una visione tanto moderna quanto morale, fondata su un uso consapevole, e non puramente opportunistico/trendy, delle tecniche prescelte, in cui ogni aspetto della messa in scena risponde a una logica precisa e non all’ossequio di una formula, alla tentazione di un ammicco. Senza fare paragoni scomodi, ma solo per rendere l’idea: quello che ieri faceva Michel Gondry e oggi fanno registi come Oscar Hudson e Virgilio Villoresi, che danno alla luce mondi in cui creazione e metodo, invenzione e strumento sono uniti verso un unico poetico obiettivo.
Uolli ribadisce la sua cifra analogica e artigianale (ma non per questo ingenua, anzi – il ricorso alla tecnica delle wiggle gif anziché all’animazione passo uno -) e dà una veste visiva alle sonorità elettroniche del brano di Meg, le cui caratteristiche dettano letteralmente i canoni della rappresentazione: quindi scenografia asettica, look retrofuturistico, cromatismi spiccati. Le fantasiose dimensioni esplorate attraverso il visore sconfinano nel primo set (le piante, le palline) e sovrappongono i livelli. Nessuna effettistica digitale per rendere questo sconfinamento, ma il ricorso a una meccanica ludica (l’aria che fa sollevare le palline, come nel vecchio gioco delle pipe) che è ulteriore sviamento temporale.

# 39
Supernova (Ansel Elgort)
diretto da Colin Tilley, 2018

Colin Tilley è un maestro di stile e uno dei registi chiave degli anni 10. Prolificissimo lo segnalo con uno dei suoi clip meno celebrati, un pianosequenza tutto giocato sul piano luministico e facendo di questo dato un elemento narrativo. Se quello che sta vivendo Ansel Elgort (sì, l’attore) è un incubo che lo fa vagabondare da un punto all’altro di un mondo oscuro, in cui ogni elemento è illuminato a dettaglio, il finale lo svelerà come una dimensione a se stante, isolata in un capannone, mentre il mondo esterno è fatto di un’accecante luce bianca. Non solo un virtuosismo, perché l’acrobazia tecnica non è fine a se stessa, ma parte sostanziale dell’idea narrativa.

# 38
High By The Beach (Lana Del Rey)
diretto da Jake Nava, 2015

Un elicottero scruta una villa a picco sul mare: sulla balconata si distingue una figura femminile: nella grande casa semivuota la protagonista è sola, disturbata dal velivolo. Il lungo pianosequenza, con camera a mano pedina, allora, Lana Del Rey prima all’interno e poi all’esterno del suo buen retiro: la custodia di una chitarra nascosta tra gli scogli viene recuperata e, aperta, rivela all’interno una mitragliatrice. La donna la punta verso l’elicottero, da cui fa capolino un teleobiettivo, e lo fa esplodere. La diva, oggetto di attenzione spasmodica da parte dei media fa di High By The Beach, – diretto dal veterano Jake Nava (Single Ladies, mica cotica), già al servizio dell’americana per Shades of Cool – l’ennesima occasione per autocelebrarsi. Tra zoom instabili – come se le immagini fossero davvero rubate – e magistrale gestione di spazi e tempi, nell’assenza (studiatissima) di artistic design, Nava conferisce l’effetto vento sulla performance attraverso l’aria smossa dalle pale dell’elicottero. Intanto immagini (i paparazzi) e testo della canzone (un ex da allontanare) dicono le stesse cose a persone diverse. M’inchino.

# 37
Need You Now (Hot Chip)
diretto da Shynola, 2015

Alexis Taylor rivive la stessa circostanza (la rottura con la compagna) tre volte contemporaneamente, incrociando gli altri doppelgänger e interagendo con essi. La situazione viene mostrata, dunque, tre volte (che corrispondono agli inneschi del ritornello della canzone, rimandata da un videoclip che vediamo da un televisore sintonizzato su un canale tematico), dai diversi punti di vista dei tre Sé, l’ultimo dei quali, riuscendo a consegnare alla donna una foto che testimonia un momento felice della coppia, la convince a restare. Applicando un canone piuttosto ricorrente negli ultimi anni – che rimanda alle alterazioni spazio-temporali del videoartista Zbigniew Rybczyński e alle soluzioni seriali e ricorsive di Michel Gondry – il collettivo britannico Shynola dimostra, ancora una volta, di non essere soltanto un’eccellenza tecnica, ma di sapere gestire con maestria complesse costruzioni narrative che sfruttano a fondo l’originalità del loro approccio agli strumenti. In questo caso imbastiscono un racconto-nastro di Moebius in cui riescono a fare della scelta multipla e del peculiare approccio temporale la base di un fascinoso mélo-mystery.

# 36
Fantasìa (Fur Voice)
diretto da Pablo Maestres, 2015

La surrealtà è il punto di incontro tra sogno e veglia: la produzione immaginaria in quel territorio è senza limiti e Fantasia che, macina invenzioni senza soluzione di continuità, sondando anche i confini dell’incubo, ne disegna una mappa eccitante. Pablo Mestres si muove sulle orme dei connazionali CANADA e, superandoli in curva, conferma quanto il collettivo catalano – e le sue ricognizioni nelle estetiche vintage – abbia costituito, con il docudrama gavrasiano, la poetica visiva più saccheggiata dell’ultimo decennio videomusicale.

# 35
Dead Boys (Sam Fender)
diretto da Vincent Haycock, 2018

Un docudrama in cui Vincent Haycock stilizza la realtà di una mascolinità interrotta e sofferente: suicidio, depressione, identità in bilico. La visione liricizzata di un dramma culmina in un sipario frontale che sintetizza tutte le ferite mostrate in un quadro di bellezza essenziale e poeticità disseccata.

# 34
Go Outside (Cults)
diretto da Isaiah Seret, 2011

Il video fa riferimento alla storia di Jim Jones, fondatore della congregazione People’s Temple: nel 1977 il predicatore, a Jonestown, una comunità da lui fondata in Guyana, indusse al suicidio più di novecento persone. Go Outside parte con un telegiornale della NBC dell’epoca (si parla dell’uccisione di un deputato del Congresso degli USA e del suo entourage, che precedette di un giorno la tragedia) e, in un flashback, mostra le immagini di quattro anni prima in cui Jones arringa i fedeli a Los Angeles e poi quelle della comunità a Jonestown. Si tratta di materiale faticosamente recuperato dal regista e proveniente da registrazioni amatoriali: a questa documentazione di repertorio Seret associa scene di fiction, perfettamente mimetizzate, in cui il brano musicale viene accompagnato dalla performance. Il regista porta avanti uno studio sui materiali d’epoca – e sulla loro possibile riproduzione – in un senso ben più pregnante di quello della dilagante e meccanica applicazione dell’estetica vintage anni Settanta. Inoltre, evitando rigorosamente le immagini relative al massacro, Seret mostra invece quelle della quotidianità della congregazione, dimostrandosi più interessato all’aspetto antropologico del fenomeno che a quello abusato della cronaca e palesando la volontà di ri-dire e ri-umanizzare – sono parole sue – la storia di quelle persone.

# 33
Voodoo In My Blood (Massive Attack feat. Young Fathers)
diretto da Ringan Ledwidge, 2016

Ledwidge, uno dei grandi registi di commercial mondiale, propone un video ansiogeno con Rosamund Pike (invasata in un tunnel, come Isabelle Adjani in Possession di Andrzej Zulawski), ipnotizzata da una sorta di drone sferico che assume il suo controllo mentale e fisico.
Siamo tutti fantocci in balia di fascinazioni: il clip ci penetra l’occhio, come l’ago che sottomette la volontà della protagonista.
Miglior video musicale al Camerimage 2016.

# 32
hostage (Billie Eilish)
diretto da Henry Scholfield, 2018

Il promo musicale per Henry Scholfield è un campo di sperimentazione tecnica: i suoi sono quasi sempre tricky video, che, partendo dai maestri degli anni 90, hanno evidenziato un approccio stilistico originale, legato a una poetica ricorsiva: il disorientamento dell’individuo, le sue crisi personali e relazionali, sono resi metaforicamente attraverso sdoppiamenti, viaggi in dimensioni parallele, sovvertimento delle leggi fisiche. Hostage è il suo video migliore di sempre perché finalmente porta le sue intuizioni a un livello di compiutezza, a lui finora sconosciuto, che va oltre il razionale calcolo degli ingredienti. Qui ogni elemento (l’uso del movimento, del colore, dell’effetto speciale, del décor) è al completo servizio del topic e il complesso scenico, anche grazie alle interpretazioni, dimostra un’intensità di marca superiore.

# 31
Czech One (King Krule)
diretto da Frank Lebon, 2017

Viaggio aereo e trip visionario, giocato su slittamenti continui di livello: se il taglio visivo pare a bassa definizione, la costruzione dei sensi (e dei set) risulta di tutt’altra caratura. E impressionante è il modo in cui il regista restituisce il vortice allucinatorio nel quale il protagonista galleggia. Facile trovare dei riferimenti (l’asse lucidità-sogno, il confine segnato dal dormiveglia sono territori frequentati da sempre nel videoclip), ma indiscutibile è la personalità dello stile, il modo in cui Lebon lavora sulle immagini, le associa, le combina, le moltiplica, ne isola dettagli all’interno, facendo progredire la storia (c’è una narrazione) e chiudendo il cerchio visionario.

 

Terza parte

Prima
Quarta