TRAMA
Archie Andrews e i suoi amici vivono a Riverdale, una cittadina che, dietro la sua apparenza tranquilla, nasconde un fondo oscuro. Ogni stagione si fonda su un mistero da risolvere (l’omicidio del giovane Jason Blossom, gli attacchi e l’identità del serial killer Black Hood, il significato del gioco di ruolo Gryphons & Gargoyles eccetera) al quale si collegano le personali vicende di ciascuno dei personaggi principali.
RECENSIONI
Quanto è rilevante, nell’analisi della serie, il comic dal quale è tratto?
Riverdale parte da Archie Comics, un fumetto creato da Bob Montana negli anni Quaranta, una storia lunga 666 albi e conclusasi con la morte del protagonista Archie Andrews, ormai adulto, nel 2014. La versione adolescenziale del personaggio ha avuto una prosecuzione (Archie Comics vol. 2) dal 2015 fino al 2018.
Tutti i dettagli sul successo del fumetto e del personaggio, sul dilagare della saga sui media americani, oltre agli spin off a cui essa ha dato origine, li trovate su wikipedia.
Quanto è rilevante questa origine nell’analisi della serie televisiva? Moltissimo e pochissimo.
Moltissimo
Moltissimo perché, ad approfondire l’impatto di Archie Comics sui prodotti culturali per il mondo adolescente americano, si scopre come esso abbia ispirato indirettamente anche cose apparentemente lontanissime come Spider Man. E abbia costituito un modello di racconto e una galleria di figure per alcune serie televisive a noi più prossime come Beverly Hills 90210 e Dawson’s Creek. Ed è questo un dato importante che dobbiamo tenere presente: è il mondo di Archie a fornire i prodromi di questi serial, non il contrario. E quindi Riverdale - realizzata da Roberto Aguirre-Sacasa (che è il capo creativo degli Archie Comics) e prodotta da Greg Berlanti - è una serie che si trova in una posizione anomala: propone un mondo narrativo e poetico seminale, ma lo fa dopo le derivazioni di successo a cui quel mondo ha dato vita. Tradotto nel linguaggio autoreferenziale riverdaliano: è Archie “il padre” di Dylan di Beverly Hills 90210, ma è Luke Perry (Dylan, nella suddetta serie) che interpreta in Riverdale il padre di Archie.
Pochissimo
Pochissimo perché, proprio per il suo carattere post (-eriore), Riverdale fagocita le sue declinazioni e le risputa alterando il suo carattere iniziale, rimodellandolo sulla consapevolezza di quelli che sono stati gli epocali mutamenti culturali che si sono susseguiti dagli anni 40 a oggi, testimoniati proprio dai lavori che si sono rifatti al suo immaginario. Così il mondo del fumetto, trasposto in serie televisiva, cambia radicalmente, perdendo la sua ingenuità originale: tingendolo di nero, Riverdale parla esplicitamente della perdita dell’innocenza di quell’immaginario. E sottolineo esplicitamente, perché la serie non è solo cosciente di questo processo (basterebbero a dimostrarlo certe scelte di casting - ne riparliamo -), ma lo afferma e lo rimarca intessendo una fitta tela metatestuale. Il metadiscorso, mutuato da Dawson’s Creek (di quella serie Berlanti era parte in causa e, sotto molti aspetti, questa ne costituisce un cripto-remake, almeno quanto Dawson's Creek è un cripto-adattamento di Archie Comics), è esasperato al punto da non poterlo considerare solo un ammicco o un gioco teorico: qui costituisce motivo fondante e sottilmente rivendicativo, arrivando a dilagare nella narrazione, colonizzandola letteralmente. Riverdale, quindi, parte dal fumetto, e passa all’incasso di tutto quello che da quel fumetto è direttamente o indirettamente derivato a livello cinematografico e, soprattutto, televisivo: lo raccoglie, lo sintetizza, lo espone, ci ragiona su.
Questa operazione, quindi, distanzia Riverdale da Archie Comics, anche se, come in ogni prodotto postmoderno che si rispetti, non esaurisce la faccenda e non ne compromette la dimensione spettacolare: ne sia dimostrazione l’enorme successo di Riverdale nel pubblico dei giovanissimi che, verosimilmente, dei riferimenti a palate e dell’orgia di citazioni coglieranno poco o niente. La serie è cosciente anche di questo, tanto che decodifica molta parte delle allusioni di cui infarcisce il racconto: così, alla gioventù ignara, ma curiosa, è dato ogni strumento per approfondire e comprendere.
Twin Blossom
La prima stagione presenta la comunità perbene di una città americana secondo il vangelo di Peyton Place, ripassato attraverso il filtro surreale di Twin Peaks (che di quel modello già teneva conto): quella lynchiana, in particolare, è una cifra evidente che non si manifesta soltanto nell’ambientazione (la cittadina dalla facciata impeccabile che presenta personaggi e luoghi ricorrenti, nascondendo un lato oscuro), ma soprattutto in quella tipica sospensione temporale alla Velluto blu che fa apparire Riverdale un luogo non ascrivibile a un’epoca precisa (o meglio ascrivibile a tante epoche via via differenti) [1] . Se la serie è indubbiamente ambientata ai giorni nostri, infatti, i suoi colori, le modalità di svolgimento delle vicende, i prop e i toni delle situazioni sembrano quelli di un film anni Cinquanta (Sessanta, Settanta eccetera). Gli stessi titoli degli episodi sono altrettanti rimandi a film di Orson Welles, Francis Ford Coppola, Russ Meyer, Brian De Palma, David Lynch per arrivare, nelle stagioni a seguire, a derive contemporanee e ultracinefile imprevedibili (da The Killing of a Sacred Deer di Yorgo Lanthimos a There Will Be Blood di Paul Thomas Anderson fino a Hereditary di Ari Aster) o addirittura ad altre serie (si intitola In Treatment la puntata nella quale tutti i protagonisti vengono psicanalizzati, mettendone in evidenza carattere e motivazioni). Ma, al di là del ricco repertorio telecinematografico che i personaggi si divertono a palleggiare o che viene omaggiato più o meno tacitamente (esempio: Archie e Betty vivono in Elm Street), si ravvisa l’adozione delle logiche di fondo del riferimento chiave utilizzato: se la prima stagione è twinpeaksiana (comincia, come la serie di Lynch, con il ritrovamento di un cadavere - lì Laura Palmer, qui Jason Blossom, twin di Cheryl -) e dominata dall’interrogativo sull’identità dell’assassino, da un mistero che, come nel caso dell’omicidio di Laura Palmer, pesa sull’intera sfilza di episodi, la soluzione sarà identica a quella del classico televisivo prescelto (l’assassino è il padre).
Il che ci fa comprendere perché tutto questo apparato teorico funzioni anche narrativamente: questo alludere oltranzista, non è un semplice fare l’occhiolino, è la conseguenza dell'adozione di strategie precise e collaudate che - potrei dire - vengono citate attraverso la loro applicazione.
[1] Come in Tredici, accanto a David Lynch, è il film Donnie Darko (teen movie in cui il dramma si apre a dimensioni e mondi paralleli) a costituire un rimando sotterraneo. Di quest’ultimo si rimarcherà la radice attraverso l’esecuzione del brano Mad World dei Tears for Fears nella versione lenta e atmosferica di Gary Jules che era la punta di diamante dello score del film di Richard Kelly.
Bionda o bruna?
E comunque se il fumetto vede il rosso Archie in bilico perenne tra la bionda Betty e la bruna Veronica, mentre Jughead è fondamentalmente asessuato, qui la scelta che viene fatta (Archie si mette con Veronica, Betty con Jughead) sottende sempre una dimensione alternativa possibile, lynchianamente parallela, in cui Archie vive la sua storia d’amore con l’amica del cuore Betty. Nella quarta stagione, in cui si cita Strade perdute (e una puntata, tanto per essere chiari, si intitola Lynchian), si allude a questa possibilità e la si risolve attraverso uno sdoppiamento preciso: in cui, posti i legami che si sono instaurati nella realtà (Archie /Veronica, Jughead /Betty), a un livello mitico, ideale, che affonda le radici nei sogni dell’infanzia, Archie e Betty si mettono insieme. È la solita vertigine che incrocia testi che si sono stratificati nel tempo: alla base ci sono la bionda e la bruna del fumetto, poi il film di Lynch (con il personaggio di Patricia Arquette che è, a seconda del livello narrativo preso in considerazione, sia la mora Renée Madison sia la bionda Alice Wakefield) e poi tutte le serie che sul dilemma si fondano (in Beverly Hills 90210 Dylan oscilla tra Brenda e Kelly). In Dawson’s Creek il protagonista è in bilico tra Jen e l'amica di una vita Joey; e poi Joey, come Betty, è in bilico tra il primo amore Dawson e il miglior amico di questi, Pacey. La metatesualità di quella serie, come nel caso di Riverdale, si accentua man mano che si avvicina alla fine: così nell'ultima stagione Dawson sarà il produttore di The Creek, la serie tratta dalla storia della sua vita. E nell'ultima puntata di Dawson's Creek si svelerà il finale della serie The Creek come sostanzialmente opposto a quello della vicenda reale di Dawson, in un cortocircuito che vede Joey unita finalmente a Dawson nella finzione e definitivamente legata a Pacey nella realtà. Tutto questo per ribadire come in Riverdale si prenda il riferimento primario (Archie Comics) per contaminarlo con declinazioni posteriori: il risultato è talmente impregnato di implicazioni reciproche, talmente ibrido, da non riuscire più a capire dove finisca l’uno e inizi l’altro. E se è nato prima l’uovo o la gallina.
This Must To Be The (Peyton) Place
Ma i riferimenti della serie sono anche letterari e teatrali: Nathaniel Hawthorne, Edgar Allan Poe, Charles Dickens, Truman Capote (Veronica, fin dalla prima puntata, annuncia la schizofrenia della serie, sospesa tra il glamour di Colazione da Tiffany e l’orrore di A sangue freddo) e via così. Nel film di Mark Robson I peccatori di Peyton (in originale Peyton Place), diversamente dalla novella di Grace Metalious [2], le vicende sono incorniciate dalla voce fuori campo di Allison che scrive racconti che si ispirano alle vicende della cittadina e ai personaggi che la abitano (la serie televisiva con Mia Farrow amplificava questo elemento).
Le vicende di Riverdale sono narrate dalla voce fuori campo di Jughead che, nel primo episodio, così esordisce:
«La nostra è la storia di una città, di una piccola città, e delle persone che ci vivono». Come capiterà sempre durante la serie, non appena ti si accende la lampadina - «Ma qui si cita La piccola città di Thornton Wilder!» - accade che il riferimento venga messo in palese evidenza dal racconto (Veronica lo fa pochi minuti dopo). Ma questo rinvio, a differenza della miriade di altri che seguiranno, è davvero segnante e decisivo (e non casualmente posizionato nella prima puntata). Agli italiani dirà poco, ma l’opera teatrale (e premio Pulitzer) La piccola città è un classico del teatro americano, un testo che il liceale statunitense studia e conosce. L’opera presenta una figura rivoluzionaria, il Direttore di scena, una sorta di narratore onnisciente che determina, come scrive Peter Szondi, «la distruzione dell’illusione» conducendo «a quell’esperienza estetica del mondo che è comunicata da ogni letteratura epica. All’azione drammatica si sostituisce la narrazione scenica, il cui ordine è stabilito dal Direttore di scena. Le singole parti non si generano da sé come nel dramma, ma sono composte e saldate in un tutto dall’io epico».
[2] È appena il caso di ricordare che il primo titolo del romanzo Peyton Place era The Tree and The Blossom, ma, davvero si generano vertigini a ogni passo, quindi d’ora in poi limiterò al minimo questo tipo di parentesi.
Jughead, l’io epico
Jughead è l’io epico di Riverdale, il narratore che ne espone le vicende. E che, se non le inventa di sana pianta, sicuramente le esaspera, ci ricama su. Così tutto l’universo di Riverdale non è altro se non il riflesso della cultura nerd di questo ragazzo solitario, emarginato, che consuma serie, film e libri e che ne mescola le suggestioni nel suo racconto. Una prassi che si rinviene in moltissimo cinema contemporaneo, soprattutto giovanile (American Ultra, per esempio, può essere letto, come scrivevo, come un trip allucinogeno-letterario-fumettistico del suo protagonista).
Quando nella quarta stagione si delinea l’ennesima cornice (Jughead che frequenta un corso di scrittura), il suo rivale (che, con chiaro riferimento all’autore di Le regole dell’attrazione, si chiama Bret Winston Wallis…) definirà puerile il racconto sul Re Gargoyle: le possibili critiche alla terza stagione (fondate su quel racconto) sono già inglobate nel testo. Anche qui si tratta di esasperare la metatestualità di Dawson's Creek in cui un professore di letteratura del college giudica con sufficienza l'esercizio letterario di Joey, che non è altro se non il racconto delle prime stagioni del serial.
La verità è che più Riverdale si consegna a trame intricate e risolte semplicisticamente, più diventa esaltante. La spudorata faciloneria dell’intreccio è il modo che ha di ricordarci quello che, pur essendo evidente, tendiamo a dimenticare: che è Jughead che sta narrando e che è lui il palese burattinaio del teatrino. E che il disordine, l’ingenuità citazionistica, l’accumulo ossessivo che caratterizzano lo sviluppo narrativo sono farina del suo sacco. Lamentarsene equivale a cercare coerenza, misura ed equilibrio narrativo nel racconto di un liceale. Quindi criticare Riverdale, come alcuni hanno fatto, per la sua disomogeneità, schizofrenia o per la mutevolezza dei suoi personaggi (pensiamo, in parallelo, alla volubilità strategica dei personaggi di Dawson’s Creek, un tiraemolla lungo sei stagioni) significa non cogliere la logica della sua costruzione. E ignorare quella che è la sua prima caratteristica, che qui ribadisco: la consapevolezza. Che è anche consapevolezza critica di un linguaggio, quello delle serie, e delle sue derive [3]. In questo riproducendo un topos di Twin Peaks che di quel linguaggio faceva anche applicazione dileggiante (non dimentichiamoci che gli abitanti di Twin Peaks guardavano la soap opera Invitation to Love).
[3] Solo per fare un esempio di autocoscienza critica risolta ironicamente: se si eccepisce a questa serie (e a quelle simili, come Tredici) di proporre liceali interpretati palesemente da attori ultraventenni, ecco che alla Riverdale High si viene a scoprire (sulla falsariga del film Orphan di Jaume Collet-Serra) che la liceale Evelyn ha in realtà 26 anni.
Autodenuncia
Basta ascoltare le parole di Jughead, che accompagnano l’inizio di molti episodi, per capire che quelle che sta narrando sono vicende immaginarie in cui le persone che fanno parte della sua quotidianità diventano personaggi di una favola nera, di un horror alla Henry James (Cheryl ce lo ricorda leggendo Il giro di vite), di un gangster movie (l’apprendistato criminale di Archie sulla falsariga di Quei bravi ragazzi), di un thriller con assassini seriali (qui il filone è non solo lo slasher classico e post - Scream, ovviamente - e il serial killer movie, ma anche le sue riletture contemporanee, Fincher in primis), di uno scontro tra bande (come in Il ribelle o I ragazzi della 56a strada).
Ma è la ratio stessa di Riverdale che verrà messa a nudo: se la serie, come detto, riprende un mondo poetico seminale e lo fa in seconda battuta, uscendo dopo i suoi derivati, ecco che la questione è affrontata proprio da Jughead nella quarta stagione: scoprendo che è stato suo nonno l’inventore di Buxter Brothers, un fumetto di successo che gli è stato letteralmente scippato e che ha fatto la fortuna di altri…
Musical
Anche il racconto dell’allestimento del musical che ogni anno si tiene alla Riverdale High è l’ennesima operazione a molti livelli: che si fondi su Carrie, Schegge di follia o Hedwig, esso diventa la didascalia alle vicende attuali che i personaggi stanno vivendo. Intendo dire che il musical non è solo quello che viene provato, ma che la puntata stessa assume la forma di un musical nel quale i personaggi cantano e danzano, mettendo in scena i loro reali tormenti, coerentemente con i caratteri dell’opera musicale che sono chiamati a interpretare (rivelatorio il finale di Schegge di follia: nel quadro finale Archie e soci dismettono gli abiti di scena e si presentano per come sono).
Nello stesso modo il musical tratto da Carrie di Stephen King diventa la decrittazione, servita su un piatto d’argento, del rapporto tra Cheryl (che deve interpretare Carrie) e sua madre. Non può allora sorprendere, anche in questo caso, l’esondazione della rappresentazione nella realtà (l’omicidio sul palco è vero). A garantire l’aggancio cinefilo-teorico la prospettiva del making of (ecco DePalma) e lo score à la Bernard Hermann.
I peccatori di Riverdale
La terza stagione - che mescola il filone carcerario a Fight Club di Fincher e che si muove su una trama stregonesca che ammicca a Harry Potter e fa moltissimo Ari Aster (per non parlare di tutte le serie tv a tema) - sancisce la progressiva immersione di Riverdale in un immaginario che si vuole sempre più cupo, violento e inquietante.
Nella puntata consacrata a Breakfast Club - sancita dalla presenza-timbro di Anthony Michael Hall - si delinea l’ennesimo livello, quello del gioco di ruolo, Gryphons and Gargoyles, che è ulteriore sottolineare la metatestualità cosciente della serie: una metafora del livello di finzione che sovraordina il mondo di Riverdale come pura messa in scena popolata da una gioventù inverosimile, fatta di liceali che compiono indagini, gestiscono locali, interpellano autorità, si improvvisano spie, diventano pugili, gestori di locali e palestre, s'improvvisano infiltrati, gangster, detective, giornalisti d’assalto. È la fantasia di Jughead che si scatena, una fantasia iperbolica che dipinge ragazzi più saggi, civili e impegnati dei loro genitori. Che invece sono cinici, inaffidabili e infidi, oltre che speculatori, mafiosi, spacciatori, tenutari di bordelli, trafficanti di organi e assassini (anche dei loro stessi figli, come ci annuncia da subito la prima stagione). Lo scontro generazionale è l’ovvio riflesso delle frustrazioni di un diciassettenne che dipinge quello adulto come un mondo orrorifico. Come accadeva in Peyton Place, in cui la gioventù locale diventava letteralmente vittima degli schemi puritani di cui la vecchia generazione era sentinella: non ci sorprende allora che il serial killer Black Hood (che è un adulto, ça va sans dire) voglia far fuori tutti i peccatori di Riverdale. Che sono innanzitutto i giovani.
Chi è Chi
Ma basta dare un’occhiata alle carriere di tutti gli attori adulti coinvolti per comprendere che il reticolo è fitto e tessuto con cognizione di causa: Keet Ulrich, il padre di Jughead, appariva in Scream e Lochlyn Munro, il padre di Betty, in Scary Movie (parodia di Scream); Marisol Nichols, la madre di Veronica, era in Scream 2: i genitori, insomma, provengono da un passato pop (quello degli anni 80 e 90) di cui si danno riferimenti estremamente precisi, tutti puntualmente citati negli episodi: niente è casuale, tutto è sottotesto e rinvio. E anche l’apparizione di un nuovo preside non può non celare una sorpresa (è Kerr Smith, il Jack di Dawson’s Creek, dalla suddetta serie proviene anche Chad Michael Murray).
Nel primo episodio della quarta stagione si fa morire Fred Andrews (Luke Perry è scomparso nel marzo del 2019) e gli si tributa un omaggio secondo le assodate logiche della serie: l’elogio funebre al personaggio vale evidentemente anche per l’uomo Luke Perry. E per il suo catalogo di personaggi (Dylan, in primis). Se la morte del padre di Archie avviene sul ciglio di una strada, nel tentativo (riuscito) di salvare una donna dall’impatto con un’auto fuori controllo, la salvata si rivela essere Shannen Doherty, ovvero Brenda in Beverly Hills 90210.
Tuo, Berlanti
In una serie che opera seconda le suddette strategie anche il lato educativo e politicamente corretto è di secondo livello e praticato con consapevolezza ironica. Se la sessualità si vive liberamente - l’omosessualità è più che sdoganata (e l’aberrante terapia di conversione si pratica in un istituto da incubo) - la questione è sottolineata attraverso l'autoreferenzialità dell’episodio in cui i protagonisti vanno a vedere il film di Greg Berlanti Tuo, Simon, teen movie con coming out. Ma quella gay per il Berlanti militante non può che diventare tematica anche interna, così la messa in scena della bromance tra Archie e Jughead legittima e ingloba anche le letture omo del loro rapporto [4]. In tre occasioni in particolare: quando si fa notare che tra Archie, Veronica, Betty e Jughead tutti si sono baciati tra loro tranne i due maschi; quando, momento sublime, la madre di Jughead rivede il figlio dopo tanto tempo e candidamente dà per scontato che lui e Archie stiano assieme.
E quando Archie per scherzo invita Jaghead al ballo della scuola e Kevin sancisce (momento meta tra i più spinti) che quella del rapporto gay tra i due è materia da fan fiction.
[4] Famoso lo scambio in Chasing Amy di Kevin Smith, quando, parlando del fumetto, Hooper X afferma che i due sono amanti: «Archie was the bitch and Jughead was the butch».
Norman Fucking Rockwell
Si potrebbe dire che Riverdale sta alle serie televisive come un album di Lana Del Rey sta alla musica pop: entrambi impregnati di passato, cultura alta e bassa, spleen e coscienza citazionistica, entrambi in bilico tra diarismo e visionarietà, tra realismo e mitologia stelle e strisce. Ma Riverdale se è un macrotesto sulla serialità teen, non dimentica mai la sua radice: il fumetto sembra essere la coscienza silente della serie. Che si risveglia sporadicamente in forma di sogno. O di incubo: nella prima stagione (settimo episodio) in una sequenza onirica i personaggi, in un contesto anni 50, appaiono esattamente come nel fumetto (e Jughead ritrova la sua corona, e non il berretto che la televisione gli ha affibbiato). La quarta stagione alza la posta e sulla falsariga di Lost Highway fa recapitare agli abitanti della cittadina delle videocassette in cui si rimettono in scena omicidi già visti (come quello di Jason Blossom). Cosa sta accadendo? Non lo sappiamo: ma le figure che animano questi video sono degli alter ego dei personaggi della serie che indossano le maschere degli Archie Comics. Meta-orgasmo.