Amazon Prime, Commedia, Drammatico

EIGHTH GRADE

Nazione U.S.A.
Anno Produzione2018
Durata93’
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Kayla Day crea video su YouTube, è sicura e disinvolta su Internet, timida e impacciata nelle situazioni reali. La sua ultima settimana di scuola alle medie sarà memorabile?

RECENSIONI

Fuga dalla scuola media (Todd Solondz, 1995) si apriva sul ritratto della famiglia Wiener, un quadretto suburban in cui lo sguardo di Solondz incontrava quello di Dawn Wiener (Heather Matarazzo), figlia di mezzo tra un fratello maggiore “secchione” e una sorella minore “principessa”, occhialuta studentessa sistematicamente presa di mira dai compagni che le deturpavano il nome (Wienerdog) e l’armadietto. Il movimento su Dawn, isolata così dal resto della famiglia, ne prefiggeva già, sui titoli di testa, i conflitti e la sorte, il desiderio di una fuga (impossibile) da quella superficie messa in posa.

Una generazione dopo, Eighth Grade, esordio alla regia del poliedrico e talentuoso Bo Burnham (recuperate su Netflix il suo Bo Burnham: Make Happy per scoprirlo), si apre con il video che la tredicenne Kayla Day (Elsie Fisher, perfetta e intensa incarnazione del “peso” dell’età di mezzo) sta registrando per il suo canale youtube (un “Kayla’s Corner” che pare rinviare allo “Special People Club” di Dawn): uno sguardo interpellante che chiede, prima di ogni altra cosa (first things first, «prima le cose importanti»), di essere visto («Non ricevendo molte visualizzazioni, vi chiedo di condividere i miei video»). Un’immagine che, chiudendosi con il totale della cameretta che scopre Kayla sola davanti al pc, ci presenta già il topic sul crescere al centro del film: non tanto lo scoprirsi soli con le proprie immagini, rimbalzate da un social all’altro (la post-millennial Kayla crea contenuti su Snapchat come riempie di post-it la sua stanza, commenta su Instagram allo stesso modo in cui consegna lettere scritte a mano), quanto il tentativo di non soccombere alla solitudine e alla tristezza di una visione del genere.

A differenza di Dawn, Kayla Day è figlia unica, viene eletta dai suoi compagni la ragazza più silenziosa della scuola, e di “deturpato” ha solo la pelle acneica del suo giovane volto e la superficie crepata del suo smartphone. A tallonarla nei corridoi della scuola, non sono le mire degli altri, ma uno sguardo che la segue come un’ombra. E che nella sequenza della festa in piscina, prima la chiude dietro a una porta a vetri, come una figura sul baratro di una realtà alla quale non riesce ad accedere, condannata a vedere senza poter essere vista (con un’immagine folgorante, Burnham rappresenta Kayla come uno dei lenzuoli di Storia di un fantasma, David Lowery, 2017); poi si tuffa con lei in acqua, la osserva struggersi per il bello della scuola Aiden e la vede improvvisamente dividere il bordo piscina con Gabe, l’unico ragazzo che, rivolgendole la parola, dimostra di essere interessato a lei.

Perché, nonostante quella richiesta iniziale, Kayla fatica a diventare il “bersaglio” dello sguardo di qualcuno, tantomeno dei belli/bulli della scuola, che la ignorano e sono quindi ignorati dal film. Non è la fuga a restituire il movimento del suo crescere, a condensare l’immagine del film. Che sceglie invece la prossimità per raccontare la straordinarietà di uno sguardo che prova a raccordarsi sulla vita (come la voce in dei video youtube di Kayla, che si fa commento over di fronte alle zero o quasi visualizzazioni del suo canale). E che impara a vedere e a vedersi in quell’esperienza – divertente, elettrizzante, spaventosa: sono le parole di Kayla, che ben si adattano alle immagini del film – rimasta fuori dalla «capsula temporale» la cui apertura aveva inaugurato il racconto: una scatola decorata in cui Kyla aveva sperato di ri-trovare la visione di sé, di ri-comporre il proprio destino identitario. È il confronto con il venir meno di quella visione a restituire tutta la forza della protagonista, che “giganteggia” goffamente e teneramente nell’inquadratura, e l’adesione del film a essa. E a scongiurare la deriva di uno sguardo che ha rischiato di non incontrare quello degli altri: l’immagine narcisistica distintiva della contemporaneità e del cinema che la racconta. «You are awesome» è il commento con cui il film di Burnham, attraverso Gabe, saluta la sua protagonista. È questa “trasgressione” il regalo forse più bello di Kayla a Kayla, e del film a noi.