TRAMA
Alessandro e Pietro sono due sedicenni, amici inseparabili, che vivono nel rione Traiano di Napoli. Lo stesso rione in cui, nell’estate del 2014, morì ucciso da un carabiniere Davide Bifolco, anche lui sedicenne. Alessandro ha trovato un lavoro da cameriere in un bar mentre Pietro, che ha studiato per diventarlo, cerca un posto da parrucchiere.
RECENSIONI
L'accanimento di cinema, letteratura e tv su Napoli e sulla camorra ha generato, negli ultimi due lustri e a partire da Gomorra, decine di prodotti paradigmatici capaci – chi più, chi meno – di rendere indistinguibile il confine tra realtà e fiction. Nel momento in cui si reca nel Rione Traiano per raccontare la morte del 16enne Davide Bifolco (ucciso da un carabiniere che lo inseguiva avendolo scambiato per un latitante), il regista Agostino Ferrente (L'orchestra di piazza Vittorio, Le cose belle) sceglie di intraprendere una via diversa e nuova, sperimentale e controversa, probabilmente l'unica in grado di restituire appieno la dimensione di verosimiglianza che stava cercando: consegnare un iPhone a due amici fraterni, Pietro e Alessandro, rendendoli registi e attori protagonisti del loro stesso film. La richiesta è semplice: basta riprendersi a loro piacimento nel corso della giornata, raccontando la quotidianità e le loro attività durante una afosa estate campana. Selfie – passato alla Berlinale 2019 e premiato come Miglior Documentario ai David di Donatello – non è un film partecipato, perché Ferrente è sempre stato presente durante le riprese, e sulla valenza del suo contributo attivo (sovente rimarcato dalla voce off) si apre la prima voragine contenutistica: quanto è sincero e genuino ciò che vediamo e quanto è frutto di manipolazione? È Ferrente stesso a ricordare l'interazione continua coi personaggi, con indicazioni e provocazioni. Da primo spettatore, in sintesi, il creatore ha pilotato la sua creatura scoprendo sul momento stesso cosa sarebbe successo. Del resto, la definizione stessa di selfie contiene in sé un'idea di passato, di testimonianza “alle spalle” di chi si pone al centro dell'obiettivo, nascondendo il futuro e ciò che viene “dopo”. Come nell'Infinito leopardiano recitato da Alessandro, metafora della condizione di una generazione che vorrebbe scrutare e comprendere l'avvenire, potendolo invece solo immaginare e sognare. Selfie è una pellicola che metaforizza continuamente, ben oltre la volontà dei due adolescenti e dello stesso Ferrente.
Il modo stesso in cui Pietro e Alessandro si filmano racconta un mondo stratificato ed elaborato, tra i giri al centro commerciale e gli incontri con gli amici, i tuffi a Posillipo e le riflessioni ad alta voce come se lo smartphone fosse un diario di bordo. Il dispositivo filtra, anzitutto, una volontà del tutto illusoria: quella della spontaneità e dell'immediatezza, della presa diretta priva di artifici. Ma quella telecamera, tenuta sempre in modalità frontale qualunque sia l'evento che si vuole testimoniare (e tra i possibili esempi noi scegliamo la serenata neomelodica del padre alla figlia), crea una inevitabile sospensione della veridicità nel momento stesso in cui viene attivata. La giovane donna che promette fedeltà al suo futuro marito anche qualora dovesse finire in prigione, il bambino che si esibisce nella beatbox chiedendo in cambio una sigaretta e gli stessi protagonisti che discutono cosa sia lecito mostrare e cosa no (l'inquietante sequenza degli spari) sono pose inevitabilmente studiate che veicolano spunti e osservazioni antropologiche: il selfie è un'istantanea che immortala una vanità, è uno specchio che rivela un eccesso narcisistico. Ma è anche – in potenza – un modo per comprendere meglio se stessi, migliorarsi e parlare di sé agli altri. Col selfie ci si guarda da fuori, si prende atto della realtà che ci circonda e si attua una pratica introspettiva sul proprio corpo, che diventa parte integrante dell'inquadratura. Se la testimonianza sull'onnipresenza della camorra, sul rifiuto o sull'adesione alla malavita e sull'abbandono totale delle istituzioni fosse stata sempre di stampo documentaristico ma “oggettivata” al punto di vista dell'autore, il risultato sarebbe stato omologato e uniformato agli standard che oramai mandiamo a memoria. O, per dirla con le parole del regista, è «Inutile continuare ad inquadrare quello che è già patrimonio dell'immaginario collettivo; più importante è inquadrare gli occhi di chi guarda». In questo scarto visivo, umano e sensoriale, stanno il significato e il senso ultimo di Selfie.