TRAMA
Ritratto degli Ekdahl, una famiglia borghese svedese, attraverso gli occhi innocenti di due bambini.
RECENSIONI
Andando a Uppsala in pellegrinaggio sulle location di Fanny & Alexander (e sui luoghi d'infanzia di Ingmar Bergman) si fa una scoperta sorprendente: se ci posizioniamo sul piccolo ponte sopra il fiume Fyrisan, più volte inquadrato, e ci muoviamo di 90 gradi possiamo abbracciare tutto il set. Il piccolo mondo nel quale si muovono eventi e affetti della famiglia Ekdahl appare vasto e in espansione, invece è inscritto in un quadrato il cui lato non misura più di cento metri tra la casa con l'arco, il mulino/canonica, la piazza con il teatro e la cattedrale. Sono varie le spiegazioni per questo fenomeno di illusione ottica. La focalizzazione interna alla mente di un bambino, per altro dall'immaginazione sbrigliata, si traduce nell'effetto lente di ingrandimento che tutti abbiamo rispetto ai ricordi infantili e che Bergman asseconda disarticolando lo spazio attraverso corse in carrozza verso false direzioni e suture di montaggio "cubiste". Inoltre Fanny & Alexander è un'opera-mondo la cui ricchezza, molteplicità, proliferazione, generosità non sembra possa venir compressa: è al tempo stesso testamento, capolavoro e Gesamtkunstwerk. "Ultimo film" di Ingmar Bergman (che resterà tale no matter what, anche se Bergman continuerà a girare per oltre vent'anni) e opera che contiene tutto: tutta la biografia reale e immaginata del regista, tutto il suo cinema, un bilancio esistenziale e artistico e tutto ciò esiste al mondo o, quanto meno, tutto ciò che nel mondo conta e ha senso. Infine l'argomento di Fanny & Alexander, la materia di cui è fatto, come la Recherche o i Four Quartets di T.S. Eliot, è sostanzialmente il tempo - e lo spazio, in posizione ancillare.
Fanny & Alexander è un film che continuamente si spiega. Perché, secondo le parole del suo creatore, è "un arazzo, un'immensa tappezzeria dove ognuno può scegliere cosa vedere" che sgorga da un primo trattamento dickensiano lungo 1000 pagine e, nella versione televisiva integrale di oltre cinque ore, si tratta di una saga familiare che si fa racconto corale dividendosi in molteplici rivoli, tutti ugualmente importanti, che a ogni svolta aprono il film a nuovi approdi filosofici - mentre il montaggio per il cinema da tre ore, imposto dai prodotturi e schifato da Bergman, è molto più specificamente focalizzato sulla vicenda principale dei due piccoli protagonisti. E poi perché, per la prima volta, Bergman l'oscuro ha voluto girare un film chiarissimo, cristallino in ogni sua parte. Come dice Gustav Adolf nel discorso della ricomposizione finale: «La gente deve essere aperta, che diavolo, e comprensibile! Altrimenti, non avremmo il coraggio né di amarla nè di parlarne male. Il mondo, e anche la realtà, devono essere comprensibili, concepibili, così che possiamo tranquillamente lamentarci della loro monotonia!». Fanny & Alexander è davvero un film per tutti. Anche i numerosi rimandi ipertestuali non prendono mai la direzione dello straniamento brechtiano. Sono tutte conferme e la più evidente e decisiva è sicuramente l'ultima: il film si chiude con Alexander che prende sonno ("life is but a dream" diagnosticava un autore che scorre potente attraverso Fanny & Alexander, nella prefigurazione amletica come nell'archetipo del principe errante, così come attraverso l'immaginario e la biografia bergmaniani) mentre la nonna legge, con un tono vocale che si fa sempre più amniotico, l'introduzione al Sogno di Strindberg: «Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su una base insignificante di realtà l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni». Ricordi privati e fantasie del regista si intrecciano proprio come la toponomastica reale di Uppsala è una tavolozza. Se parecchio trova un appiglio nelle pagine della Lanterna magica (la casa della nonna ricca; i conflitti con il padre pastore; le fantasticherie sugli oggetti quotidiani) va ricordato che ci riferiamo all'autobiografia di un magnifico bugiardo che continuamente reinventa la propria vita, tanto che - credendo ci fosse qualcosa da smascherare - stolidamente animata da sacro fuoco woke Jane Magnusson ha pensato fosse un'operazione sensata dedicare il documentario del centenario a mettere all'indice tutte le bugie raccontate da Ingmar Bergman, dal rapporto col padre alle negligenze come marito, amante, padre. Nulla è reale e tutto è autentico in Fanny & Alexander. Tempo e spazio possono essere piegati alla volontà: il padre muore ripetendo "eternità" (la parola potente è della magia) e diventa fantasma revenant, l'ebreo Isaac Jakobi traffica con la Qabbalah e con un urlo magico genera corpi astrali.
Il conflitto narrativo, esistenziale, filosofico tra Alexander / Bergman e il vescovo (il personaggio più odiato della storia del cinema) è tema autobiografico quanto emblematico della lotta all'ultimo sangue tra magia (fantasia) e monoteismo (religione). Il protestantesimo impone l'identità, il dovere e il dover essere, il senso di colpa, il principio di realtà e di non contraddizione, il fanatismo per la Verità. Non è un caso che il vescovo muoia - sarà andata così? chissà! ma crederlo equivale a provarlo - a causa di un rituale magico di fusione con l'androgino Ishmael, nipote dell'ebreo e quindi per antonomasia errante, figura alchemica queer dell'ambiguità, psicopompo verso il territorio dell'indefinito metafisico, del nomadismo esistenziale. Nell'ammaliante apologo yiddish sul viandante e la fonte letto da Jacobi - anch'esso purtroppo espunto nella versione breve - Alexander intravede profeticamente il proprio futuro.
Servono a restituire il caleidoscopio e sono innumerevoli le simmetrie nel mondo-arazzo, non soltanto esterne (i due padri; la chiesa e il teatro...) ma interne: per esempio la famiglia Ekdahl, come le famiglie di Thomas Mann, è innervata da sangue nordico, protestante, affaristico, concreto, borghese - per quanto sui generis e mai davvero freddo - e da temperamento artistico, passionale e vitalismo tragico (Helena lo dice chiaro: una parte segue l'altra e, se ora recita la nonna, lei è stata Giulietta, Margareta, è stata un'amante...). Alexander appare dalla parte dei Tonio Kroger, degli Hanno Buddenbrook: con tutto il bene per i Gustav Adolf, immaginiamo per lui un futuro sovradeterminato dalla sensibilità. Tre luoghi rappresentano i vertici del suo triangolo psichico: la casa-carcere punitiva, fredda, mistica e ultraminimale del vescovo è in aperta contrapposizione alla casa labirinto dove vive l'antiquario, dove vige l'horror vacui, l'esotismo, il soprannaturale. E poi c'è ovviamente l'enorme casa di famiglia, piena di tende, tele, panneggi, luogo di caldi affetti borghesi e di un cristianesimo pagano fondato sui piaceri sensuali, dove si festeggia lo yule danzando, cantando e abbuffandosi e ci si addormenta durante le letture evangeliche. La famiglia Ekdahl non può essere altro che un matriarcato autogovernato la cui leggi sono tolleranza e indulgenza, dove vigono serene poligamie e poliandrie e una sostanziale comunione dei figli, garantito dalle donne (agli uomini-bambini viene concesso di bunbureggiare indefinitamente tanto non fanno male a nessuno) e sostenuto dalla figura di dea ex machina della nonna, garante del piccolo mondo, che si fa anche portavoce più personale del regista alla soglia della terza età («Ci si sente bambini e vecchi nello stesso tempo, e tutto il periodo di mezzo, quello che noi consideriamo tanto importante non si riesce a capire dove sia andato a finire»). Anche Oskar, padre naturale di Alexander e padre sognato da Bergman, è un padre femmineo, tenero, sognatore. La casa è verde e rossa: per il regista il rosso è il colore dell'interno della donna, del grembo, dell'utero. Il film è aperto da Alexander che gira fantasticando nella casa vuota fino a lanciarsi nel letto della camera rossa della nonna e si chiude, come anticipato, con un secondo ritorno uterino. Alexander è tornato a casa ma il fantasma del vescovo-patrigno lo sgambetta ricordandogli che non riuscirà mai a liberarsene (come lo spettro della stretta educazione paterna tormentò l'ateo Bergman tutta la vita) così non resta musilianamente che l'ennesimo gesto regressivo e incestuoso: assopirsi in grembo alla nonna mentre lei legge Il sogno. Si fugge e ci si libera solo grazie alla fantasia, all'arte, al teatro. Eppure il motto che domina l'emblematico teatrino di marionette è "Non solo per il piacere". Il teatro, per il protagonista e per il regista, non è solo la magnifica evasione enunciata da Gustav Adolf nel suo manifesto della buona vita borghese. È una questione serissima che Bergman affronta coerentemente con l'assunto secondo cui si immaginava sposato al teatro, con il cinema come amante costosa e esigente. Fanny & Alexander è una rappresentazione meticolosa, affettuosa e umoristica della vita teatrale con la sua frivolezza e dedizione, i suoi riti, la libertà nei costumi e nel cambiare maschere.
Sono molte le riprese di pezzi di rappresentazioni teatrali. Una di queste, purtroppo espunta dalla versione breve, è un commovente, simbolico addio alle scene e alla vita di Gunnar Bjornstrand. Fanny & Alexander, film riassuntivo, avrebbe dovuto riunire la famiglia allargata dei volti bergmaniani. Invece il caso ha voluto che Max von Sydow, cui era destinato il vescovo, venne sabotato dal proprio agente (non glielo perdonerà mai); Liv Ullman oppose un gran rifiuto ricevendo in cambio una scomunica; Ingrid Bergman non riuscirà a recitare il ruolo della nonna Helena lasciando a Gunn Wallgren la più grande interpretazione della carriera - nonché ultima avendo le due attrici tragicamente in comune un cancro terminale al momento delle riprese. Harriet Andersson tiene un ruolo dimesso così finisce che, tra i grandi bergmaniani, il solo Erland Josephson rimane in prima fila. Eppure tutti gli attori sono bergmaniani, magari seconde file per decenni, dagli anni '50 fedeli al maestro che decide di promuoverli nel capolavoro finale restando fedele alla sua idea familiare e ricorrente di troupe. Recitano anche una ex-moglie e due figli. E non può mancare il fratello Sven Nykvist. Grazie a Fanny & Alexander il più grande dei direttori della fotografia vincerà il secondo Oscar squadernando il proprio perfezionismo maniacale (nel dietro le quinte vediamo singoli carrelli ripetuti con variazioni millimetriche per un giorno intero di riprese) rielaborando e inventando nuovamente insieme al regista il loro stile simbiotico: la camera accelera e decelera da un punto fisso per seguire il ritmo di una scena di girotondo oppure in mezzo a scene di massa o sul fondo di tavole imbandite centra un volto alla volta e ne asseconda e evidenzia ogni minima espressione non meno che nei primi piani trademark della coppia. È altrettanto un film di mani, quelle del vescovo innanzitutto, che, disarticolate dal corpo fuori campo, indugiano continuamente sulla testa di Alexander a trasmettere il malessere fisico dell'oppressione clericale. La colonna sonora gioca sulla ripetizione di leitmotiv tratti dal patetico Quintetto per pianoforte di Schumann e tre suite per violoncello di Benjamin Britten ad evocare una palette emotiva molto discreta ed elementare, che non vuole guidare troppo lo spettatore. Come in Sussurri e grida e in tanti altri film bergmaniani il sound design ha un ruolo cardinale. La disumanità della morte, il suo dolore non si possono esprimere altrimenti che attraverso urla bestiali che squarciano la notte, più horror di ogni horror, esattamente come il morire si mostra in un secchio pieno di vomito. La radicalità di Bergman è sempre nel non ripulire, edulcorare, imbellettare nulla: i fenomeni fisici quanto quelli psichici. «Essere al contempo la betulla e l'ascia che la abbatte». Da qui le verità di ordine superiore rivelate dal cinema bergmaniano che nessun inquisitore ossessionato dalla concordanza ragionieristica degli accidenti potrà mai comprendere.
Se Dio esiste è un bastardo, ripete più volte Alexander, e quando muore dalla curiosità di vederne il volto si trova di fronte una marionetta grottesca che crolla su se stessa. Proprio come il dio che infine appare epifanico a Karin (Harriet Andersson) in Come in uno specchio si rivela un enorme ragno ripugnante. I cieli nordici di Uppsala sono vuoti e deserti ma non importa perché il mondo ad altezza uomo è troppo ricco e non si limita alle leggi fisiche: gli spettri sono un fenomeno normale così come la magia e il soprannaturale; il tempo passa seguendo il ritmo delle stagioni, segnalato da immagini di acqua corrente in apertura di ogni capitolo, ma insieme passato presente e futuro si percepiscono contemporanei. Non ci sono confini. La parola chiave è "amore". Ritorna nei due monologhi, in quello iniziale dedicato dal padre ideale Oskar al piccolo mondo del teatro e in quello finale dell'adorabile, sentimentale, gaudente borghese Gustav Adolf dedicato alla famiglia, l'altro piccolo mondo. Saldo su questo nucleo di affetto e comprensione Alexander potrà avventurarsi nel mondo affascinante e pericoloso di cui ha avuto un assaggio nel magazzino dell'antiquario Jacobi. Vorremmo abbracciarlo, con i suoi sguardi curiosi, effaré, la sua vulnerabilità, le sue rivolte. Vorremmo abbracciare tutti come fa Bergman stesso nella simbolica foto di gruppo che sigilla il sottofinale. C'è amore per tutto e tutti in Fanny & Alexander: per «la buona cucina, i dolci sorrisi, gli alberi da frutta che sono in fiore, o anche un valzer», per tutti gli uomini anche se imperfetti, soprattutto se imperfetti. Tutti si riscattano, con la sola esclusione di chi, come il vescovo, non tollera le imperfezioni. Bergman ha creato un mondo fino ai minimi dettagli e ha deciso che, almeno lì dentro, l'amore avrebbe vinto su tutto, nonostante il clero, il lutto, la sconfitta, l'inesorabile scorrere degli anni. Il film si chiude con una dichiarazione d'amore specifica e universale, seguita da una regressione nell'amore amniotico (la nonna, il grembo, il sogno). Ingmar Bergman, l'indagatore dei meandri più oscuri della coscienza, l'autore esistenzialista cui la critica ha appiccicato l'etichetta "il silenzio di Dio", l'uomo tormentato da nevrosi e ipocondrie, ha regalato il più grandioso e glorioso "sì alla vita" che il cinema abbia mai visto. Purché sia chiaro: la vita è sogno.
