TRAMA
Napoli. A quasi cinquant’anni Sandro è ancora il capo degli Apache, il gruppo di ultras con cui ha passato tutta la vita allo stadio: una vita di violenza, scontri, passioni e valori incrollabili. Ma ora che un Daspo gli impedisce di avvicinarsi alla curva, quei valori iniziano a vacillare.
RECENSIONI
In un bel libro uscito qualche anno fa, intitolato L’invenzione del luogo - Spazi dell’immaginario cinematografico, il curatore, Andrea Minuz, sostiene che il cinema «riscrive, manipola e organizza lo spazio in funzione dell’immaginario, fino a che l’immaginario non diventa esso stesso luogo», una facoltà congenita al dispositivo, che ha avuto fin da subito consapevolezza circa le proprie capacità di inventare spazi che di fatto non esistono attraverso processi di falsificazioni costruttive. Una riflessione, quella portata avanti da Minuz, debitrice del concetto di mediascape elaborato da Arjun Appadurai, che si può interpretare nei termini di un paesaggio integralmente ridefinito dai media (tenendo conto che la stessa idea di paesaggio è un concetto eminentemente visivo, inventato cioè in funzione dello sguardo).
Ultras, l’esordio cinematografico di Francesco Lettieri, si muove esattamente lungo queste coordinate; è un film che attinge a piene mani modelli ed esperienze da un contesto, quello di Napoli (che da Gomorra in poi è sottoposto a un ininterrotto processo di iconizzazione, a cui lo stesso Lettieri ha partecipato in quanto regista dei video di Liberato, qui coinvolto come autore della colonna sonora), diventato in questi anni un deposito di narrazioni. Ancor di più si potrebbe dire che Ultras segua traiettorie tracciate da quello che viene definito come tourist gaze (sguardo del turista): uniformazione a un immaginario condiviso e multiforme che si muove per stereotipi culturali, simulazioni, surrogati dell’esperienza, traduzione di ogni differenza nelle griglie di uno sguardo omologante: indicativo a tal proposito il lavoro fatto tanto sul versante della rappresentazione urbana, presentata secondo i codici, ormai granitici nella loro validità assoluta, dell’estetica della suburra napoletana (che fa delle periferie i nuovi poli di attrazione turistica: niente di preoccupante, in passato fu grazie alle immagini che i primi viaggiatori commissionavano ai grandi pittori dell’epoca che si è costruito quel bagaglio iconografico che ha trasformato in mete escursionistiche località e monumenti che non erano affatto considerati significativi e degni di attenzione fino a quel momento storico), quanto quello condotto sulla colonna sonora, firmata, come si è già da detto, da Liberato, in cui il musicista accosta basi elettroniche inedite e sue canzoni ( Tu t’è scurdat ’e me, O’ core nun ten’ padrone) a brani emblematici della napoletanità come Caruso di Lucio Dalla o E so’ cuntento ’e stà di Pino Daniele.
Oltre al brand Napoli nel film di Lettieri si aggiunge anche quello degli ultras, una realtà di per se già incline alla tipizzazione (all'identificazione di tanti ragazzi con una squadra di calcio, ma soprattutto con una “comunità” di simili, accomunati da gergo, comportamenti, valori) e che il cinema ha ulteriormente standardizzato ed estremizzato (quasi sempre le “curve” sono prossime alla criminalità e così vengono trattate dalla polizia; tra le eccezioni mi sento di segnalare E.A.M. - Estranei alla massa, il documentario di Vincenzo Marra che offre un ritratto della tifoseria napoletana insolito a quelli che si è abituati a vedere). Quando in un film si parla di tifosi ci si immagina subito una situazione di furibondo spirito di gruppo che si esaspera in violenta fratellanza in cui una presa di distanza assume inevitabilmente i contorni del tradimento. Lettieri incattivisce ulteriormente le tensioni appena dette inserendovi anche lo scontro generazionale tra vecchia e nuova tifoseria, rispettivamente rappresentate da Sandro, detto ‘O Mohicano, e Angelo, la cui differenza d’età è risolta dal regista secondo le classiche dinamiche della relazione paternale-filiale.
Insomma in Ultras c’è tutto quello che ci si aspetterebbe di trovare in termini di argomento e contesto, peraltro risolto attraverso una regia capace di eleganti slanci estetici (anche se non sempre calibrati), ed è proprio questo a non convincere, come se il calcolo abbia prevalso sul resto. A sorprendere invece è Aniello Arena che, all'interno di un dispositivo che sembrerebbe predisposto prove attoriali muscolari, lavora di misura rendendo così ‘O Mohicano più che credibile imprevedibile.