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IL BUCO – EL HOYO

TRAMA

Un edificio si sviluppa sottoterra, suddiviso in piani: una piattaforma scende un piano alla volta nutrendo gli occupanti, ma ai livelli inferiori resta fame e disperazione.

RECENSIONI

Gli sceneggiatori David Desola e Pedro Rivero con ogni probabilità devono essersi  ispirati, nel comporre lo script di El Hoyo, alla vecchia (ma non troppo, in fondo) idea economica denominata Trickle-Down Economic, visione di ordine sociale tanto cara in particolare a Ronald Reagan e Margaret Thatcher.
La teoria liberista per antonomasia stabilisce, in sostanza, che i privilegi e i poteri delle classi dominanti debbano essere tutelati affinché una piccolissima parte delle ricchezze accumulate all’apice possa cadere poco alla volta verso la base, stimolando così un minimo di benessere in fondo alla piramide. In altre parole, è necessario che i molti stiano rigorosamente incollati allo strato sociale più basso in attesa che i beni dei pochi gli colino addosso dall’alto, e che le strutture governative si facciano da parte per consentire a questo sistema di autoregolarsi.
L’opera prima del regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia sembra voler trasporre il concetto di cui sopra alla lettera, aderendo in questo modo a un immaginario tanto cupo e soffocante quanto rozzo e monolitico: una prigione verticale composta da molti livelli numerati, ciascuno dei quali ospita due persone che, ogni mese, vengono spostate insieme da un livello all’altro secondo le indicazioni di una fantomatica “Amministrazione”; un piano zero che tutto sovrasta, dove si cucinano pietanze succulente che vengono posizionate su una piattaforma; un’apertura rettangolare tra un piano e l’altro attraverso cui la piattaforma scende, fermandosi per pochi minuti a ogni livello, consentendo in questo modo ai prigionieri di mangiare gli avanzi di chi si trova al piano superiore e, infine, la lotta disperata per la sopravvivenza degli abitanti degli strati più bassi, costretti a mangiarsi l’un l’altro per far fronte alla scarsità di cibo.

Nel mezzo di questo strutturato esperimento sociale si dipana la vicenda di Goreng (interpretato da Iván Massagué), volontario che ha deciso di sottoporsi al gioco dell’Amministrazione allo scopo di ricevere un prezioso attestato di partecipazione, strumento che concede, a quanto sembra, numerosi privilegi una volta emersi dall’abisso. L’immersione nell’orrore del buco, e lo sforzo profuso per conservare la propria umanità in un contesto nel quale dominano violenza e sopraffazione, spingeranno però Goreng a abbandonare i propri egoistici propositi e a progettare una rivoluzione interna, consapevole del fatto che nessun cambiamento possa realizzarsi spontaneamente e, di conseguenza, che le condizioni dell’Essere e degli enti che lo compongono non debbano considerarsi immutabili e non trasformabili (in questo senso, non è casuale il fatto che il protagonista abbia portato con sé una copia del Don Quijote di Cervantes).
Il film di Gaztelu-Urrutia appiattisce totalmente il proprio discorso sulla rigidità della messa in scena: macchina da presa a spalla spesso incollata ai corpi, compiacimento grandguignolesco e scontati quadri prospettici che enfatizzano la stratificazione dello spazio; e l’idea risolutiva di fondo, ovvero la speranza di redenzione complessiva esemplificata nella figura di una bambina che, dal fondo più estremo del buco, risale verso la superficie della prigione, appare molto slegata dal meccanismo narrativo nonché poco risolta e mono-dimensionale sul piano simbolico.