TRAMA
Dayton, Ohio. A causa della crisi finanziaria globale, la General Motors chiude il suo stabilimento. Un ricco imprenditore cinese, però, anni dopo, ridà speranza e lavoro a molte persone…
RECENSIONI
Nel finale American Factory (Made in Usa - Una fabbrica in Ohio) ci ricorda che entro il 2030 375 milioni di persone saranno lavorativamente scavalcate dall'automazione di molte attività produttive. Perché La classe operaia non va mai in paradiso. E neanche Elio Petri, probabilmente, che al produttore Dino De Laurentiis scriveva di un film "dalla parte degli operai, in tutti i sensi, quindi anche dal punto di vista politico, soprattutto dal punto di visto umano". American Factory, primo film prodotto dalla società Higher Ground Productions di Michelle e Barack Obama, distribuito da Netflix e vincitore dell’Oscar 2020 per il miglior Documentario, a quasi cinquant'anni dall'opera del cineasta romano, ci aggiorna sullo stato delle cose. Del resto non va dimenticato, come evidenzia il nostro Emanuele Di Nicola in un bel libro dell'anno scorso, che «il cinema inizia con il lavoro», nel 1895, con L’uscita dalle officine Lumière. Eppure, questo American Factory di Steven Bognar e Julia Reichert, più che cinema del reale, è un thriller sociale, un saggio economico-politico, una cronaca-rebus di questo nostro presente e del suo futuro.
Dopo The Last Truck: Closing of a GM Plant i due registi restano in Ohio, restano a casa insomma, fra le persone che conoscono, in quello Stato del Paese particolarmente sensibile politicamente, perché gli americani sanno che tradizionalmente "As Ohio goes, so goes the nation", ma questa volta - dopo Moraine - siamo a Dayton: la grande crisi mondiale non ha risparmiato gli operai della General Motors, che chiude i battenti; anni dopo arriva il milionario cinese Cao Dewang: molte persone rimaste senza lavoro vengono così assunte dalla Fuyao Glass America, produttrice di vetri per automobili, e dalla Cina arrivano altri colleghi ad affiancarle. Dal generale entusiasmo iniziale, però, si passerà a una situazione ben più problematica: la produzione è lenta e i profitti van giù secondo la dirigenza, dalla quale presto verrà estromessa la “quota” statunitense, molti operai (americani) lamentano basse condizioni salariali e di sicurezza, alcuni vengono ospitati negli stabilimenti in Cina per “apprendere” da chi lavora 12 ore al dì, con poche ferie e due giorni di riposo mensili. Si arriverà poi a un referendum per decidere se far entrare o meno il sindacato in fabbrica… Operai americani divisi, operai cinesi che lavorano con loro ma trovano assurde e immotivate alcune richieste… La crisi del capitalismo americano (occidentale), la potenza (che non necessariamente è forza) di quello cinese. Capitalismo che divora capitalismo.
Quello di Steven Bognar e Julia Reichert è un lavoro lungo, paziente, di anni, un documentario scritto e riscritto, evidentemente, dai tanti protagonisti incontrati, uomini e donne, giovani e non, cinesi e americani, capi e lavoratori, entusiasti e critici, che insieme disegnano e spostano le traiettorie di quest’opera, i suoi atti - più che capitoli - invisibili, percepibili, sfumati, fluidi, ibridi; momenti e movimenti in cui i registi non intervengono, e non li sentiamo, non li vediamo, anche se sappiamo da che parte (politica, umana) stanno (Reichert, memore di Marx ed Engels, al ricevimento dell'Oscar ha dichiarato: "Our film is from Ohio and China ... But it really could be from anywhere that people put on a uniform, punch a clock, trying to make their families have a better life… Working people have it harder and harder these days. And we believe that things will get better when workers of the world unite"). Ma è tutt'altro che un film dicotomico questo, perché non solo guarda ma si mette in ascolto di tutti, e raccoglie le speranze, le storie individuali e collettive, le voci, le malinconie, le gratitudini e le disillusioni, la rabbia, le paure, le incomprensioni e le barriere culturali, gli incontri, le diffidenze, le amicizie, le incertezze. Sono occhi, parole, vite. Persone. È un film molto concreto, di corpi e di macchine, ma anche molto fluido, severo eppure discreto. Una storia americana. Che fa male: da un Midwest, da un’America che sfugge al nostro immaginario, America senza più Novecento né epiche ed eroi, senza politica, e dove il Sogno è diventato un limbo o, al meglio, una piccola stanza da abitare dopo aver perso la casa di una vita, quando ci era rimasto solo un televisore. Perché in Ohio, il capitalismo, come nell'Inghilterra di Ken Loach, come nel mondo, sempre più sta imparando a dirci Sorry we missed you.