Drammatico

PELICAN BLOOD

Titolo OriginalePelikanblut
NazioneGermania
Anno Produzione2019
Durata121'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Wiebke, addestratrice di cavalli, vive presso un maneggio insieme a sua figlia Nicolina. Dopo lunga attesa, portate a termine le procedure per l’adozione, arriva Raya, una nuova figlia per Wiebke, una sorellina per Nicolina. Ma la dolcissima Raya svela, poco alla volta, una natura dispettosa, irrequieta, violenta; infine, oscura…

RECENSIONI

La madre pellicano, con il suo lungo becco, si trafigge il petto, facendone sgorgare sangue per nutrire i piccoli.

Illustrazione del tardo XI sec., Biblioteca del Seminario maggiore di Brugge

Questa immagine intensa, che deriva da un fraintendimento del movimento con cui il pellicano stritola il cibo nella sacca golare per meglio digerirlo, prima di porgerlo ai piccoli, ne fa un simbolo araldico ed eucaristico (evidente il rimando al sacrificio di Cristo) di pietà e carità verso il prossimo (adottato peraltro anche da diverse associazioni di donatori di sangue).
Ed è il simbolo che allegorizza tutto il film -storia di una madre disposta ad ogni sacrificio pur di curare una figlia adottiva malata- che dal racconto intimistico, con la più ampia questione sociale della adozioni come sfondo, si traduce in horror trascendentale, favola nera, paradigma negativo di un senso materno che diventa missione, di una missione che diventa ossessione, sfociando in un inquietante ricorso alla magia nera.
Accolto male a Venezia, dove ha aperto la sezione Orizzonti, il film, così simbolicamente orientato, è a sua volta rappresentativo di come spettatori, e critica, tendano spesso a inquadrare un’opera cinematografica in un catalogo di parametri: lungo, troppo lungo, lento, confuso, scritto male, più o meno significativo, con più o meno ritmo, inquadrabile in uno o più generi. Il che è legittimo, utile, quando non perfino necessario, ma non si può ridurre una visione a questo. A ciò si aggiunge, nella fattispecie, una questione di etica nella trama del film praticamente inaccettabile: soppiantare la scienza medica con pratiche occulte e sortirne maggiore effetto. Ma è proprio questo a rappresentare un dato interessante: nell’anno 2019 un rituale di magia nera arriva dove la medicina non può; negli anni del neo-femminismo un’addestratrice di cavalli respinge le avances di un innamorato con tutte le carte in regola che ha dimostrato dedizione, devozione, virilità, rispetto e romanticismo, per chiudersi in una struttura triangolare di vita madre-figlie, una adottata una no- ben incisa sulla porta di casa che reca i tre nomi delle sue abitanti -Wiebke, Nicolina, Raya-, con un’allusione stregonesca che spiana la strada a un sentimento misogino. Di questo si sarebbe potuto facilmente accusare un regista maschio; trattandosi invece di una donna, ci si domanda dove voglia arrivare. Ed è probabile che Katrin Gebbe abbia trasportato nel film quel sentimento magico e oscuro di matrice tipicamente tedesca e di origine norrena, facendone un discorso intimo che ruota intorno all’inconoscibilità delle ragioni del singolo; che abbia voluto sganciarsi appositamente dalle dinamiche sociali –isolando il girato in un contesto quasi esclusivamente boschivo, naturalistico, se escludiamo le poche sequenze “esterne”- per evidenziare la solitudine di fronte alle difficoltà, la soffocante ricezione di consigli esatti e perentori, scientificamente dimostrati, che a volte pongono di fronte alla rassegnazione del non poter risolvere, del non poter curare.  L’horror (total spoiler alert!) finisce dunque per giacere non tanto nella malattia della bimba traumatizzata che si manifesta come possessione, in forma quasi demoniaca, quanto nell’efficacia di un esorcismo con tratti macabri, che rimette in gioco l’elemento del sangue. In pratica, fuori dai generi, fa "orrore" la fiducia che il film sembra esprimere in queste pratiche. Ma la sua etica rovesciata, anti-scientifica, è anche il suo fascino, probabilmente non voluto, perché siamo di fronte a un materiale filmato e montato in modo efficace, dalla regia salda, facilmente inseribile nel filone babadookiano, ma dal contenuto saturo eppure involuto, che si sviluppa ambiguamente, non privo di dinamiche repulsive.
In sala, a fine proiezione, qualcuno esclamava “hanno salvato la bimba, ma hanno ucciso il film”, ben riassumendo quanto un film venga ridotto al grado di soddisfazione di un’aspettativa e giudicato in base a quella, ma soprattutto quanto non si tenga conto di ciò che l’immagine comunica al di là della trama: di quell’inquadratura finale, per esempio, con una testa di cavallo infilzata su una picca, a inverare un’immagine retriva reperita sul banchetto di una fiera, retaggio di una cultura agreste e dei suoi rituali propiziatori di antichissima origine (si pensi all’October Equuus romano). Un’inquadratura che, invece di decretare alcuna salvezza o risoluzione, o anche solo di concedere uno spiraglio di luce e lucidità, chiude il film nel suo antro buio, uterino, liberato dal male per abbracciare un’altra oscurità, isolato dal resto del mondo; cosa incomprensibile e inaccettabile per il pensiero contemporaneo. A ben vedere, una vera conclusione non c’è; men che meno un vero lieto fine. E tutto risulta paurosamente relativo.