Drammatico, Recensione

LE VERITÀ

Titolo OriginaleLa vérité
NazioneFrancia, Giappone
Anno Produzione2019
Durata106'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Fabienne è una star del cinema francese circondata da uomini che la adorano e la ammirano. Quando pubblica la sua autobiografia, la figlia Lumir  torna a Parigi da New York con marito e figlia. L’incontro tra madre e figlia si trasformerà velocemente in un confronto: le verità verranno a galla, i conti saranno sistemati, gli amori e i risentimenti confessati.

RECENSIONI

Ti fa male, lo so

Come nell'Ad Astra di James Gray l'Ulisse edipico interpretato con granitica dolenza da Brad Pitt rincorreva il padre (il Padre?) esule in qualche punto del cosmo per tutta la sua vita (e quella del figlio, vissuta nel riflesso o nella mancanza d'esso), perduto in un cupio dissolvi, e, ritrovatolo naufrago su un'isola-astronave deserta, doveva infine mollare la presa su quell'immagine-desiderio, così in Le verità del ripetutamente immenso Hirokazu Kore-eda una stanca, stanchissima Juliette Binoche cerca di far scendere di bordo sua madre, sì più avvicinabile geograficamente (New York-Parigi vs Terra-Spazio) ma altrettanto sideralmente inafferrabile, eppure onnipresente, totalizzante, schiacciante nell'alimentazione della di sé icona, devozionale auto-monumento (nel monumento: quello del volto, corpo, astro Catherine Deneuve), esigente divinità monoteista. Che tutto può, che può il tutto che vuole: sarò pure stata una cattiva madre, esclama Fabienne in risposta alle recriminazioni della sua unica figlia Lumir, ma dio sa se la sola cosa che importa è esser stata una brava attrice. E, dunque, immortale; inarrivabile. Oltre il talento, oltre le minuzie del passato - come il ruolo della gloria rubato a una collega-amica (che, però!, a sua volta le stava rubando il ruolo di cui apparentemente non si curava, quello materno) - rimane e conta soltanto l'immagine sacrale, il Sé nel e per il cinema, l'impareggiabile facciata, bionditudine & sigaretta, l'amalgamarsi irrevocabile e indissolubile tra Fabienne e Catherine, tra Deneuve e Daugeville, lo showcase dentro fuori sotto sopra il cinemavita dell'Attrice che è regina, dea predestinata (d'altronde tutte le più grandi star possiedono la fatidica allitterazione, sentenzia Fabienne, ma non nominatele BB) e fattucchiera imperscrutabile (Pierre, ex compagno che forse era una tartaruga...). E giacché è icona, autoesposizione artistica self made, Fabienne è immobile lungo tutto il film: no, neppure il "film della crisi", epifanico in potenza, in cui è figlia invecchiata di una madre resa (rieccoci) indenne alla morte e al suo male terminale dalla permanenza nello spazio profondo, nemmeno le battute memorizzate e l'immedesimazione (che si vorrebbe) fatale nella ferita d'abbandono incrinano le mura del santuario-Fabienne, perché è la recita ad appropriarsi delle verità del reale e a trangugiarle servendosi poi strumentalmente dei suoi amabili resti: la scena dell'abbraccio che promette una riconciliazione per poi negarla, soppiantata dalla supremazia della finzione, è uno dei momenti più sottilmente feroci del cinema di Kore-eda, un distillato di crudeltà che ricatapulta dentro il mastodontico Still Walking, sinfonia spezzata di incomunicabilità e pugnalate familiari. Kore-eda c'è: nel suo rivestimento esterno, immediato, Le verità sarà pure un gingillo cinefilo omaggiante le migliori compenetrazioni fra realtà e finzione à la française (non solo: fa capolino un bergmaniano teatrino, con cui le protagoniste si baloccano), ma smontando e rimontando il puzzle emotivo per sempre irrisolto di una famiglia mai davvero felice, è saldo e lucidissimo nell'indagine tutta personale, in barba all'esportazione, delle relazioni di sangue cattivo, nella (anche qui) puntualissima diagnostica dei sentimenti interfamiliari pericolanti, e nell'umanistico lambire le bolle di disperazione in cui si dimenano i suoi personaggi-funamboli tristi. Infilando un eloquente occhiolino (la famiglia asiatica osservata da una solitaria Fabienne al ristorante: per diletto, mi piace pensare si tratti del nucleo ricomposto di Un affare di famiglia, o di un loro corrispettivo alieno...) e un pre-finale da manuale: la piccola Charlotte, figlia della figlia (Lumir), che per un breve momento accoglie su di sé la finzione, per regalare alla nonna una bugia buona, bianca, naturalmente creduta, su direzione della mamma. Ma è poi vero, che Lumir (Charlotte) desidera con condiscendente affetto l'immortalità (o forse il confinamento spaziale? l'oblio definitivo?) di Fabienne? Non v'è risposta, né certezza: dove il film termina per davvero è in questa manciata d'attimi oscillanti, nell'ammiccamento enigmatico di Lumir, nello scintillio furbetto del suo sguardo, nella pace di un'ironica rassegnazione o d'una silenziosa vendetta inconfessata. Quel che ne segue è un quadretto trasognato, un corollario di retrogusto posticcio che riporta in un regno di favola, di sole scintillante, musichette festose, segreti e magie (la tartaruga, ancora): un sogno di Fabienne, un sogno di cinema, un ridanciano happy end che solamente a quel tipo di sogno, a quel tipo di cinema, a quel tipo di true lies, può appartenere.