TRAMA
Durante la ricreazione, la tredicenne Lykke, figlia di un importante membro del partito laburista, ferisce gravemente il suo compagno di classe Jamie, figlio a sua volta di un politico di alto profilo di destra. Quando Jamie muore in ospedale, le versioni contraddittorie di ciò che è realmente accaduto rischiano di peggiorare una situazione già complessa e traumatica. Si è trattato solo di un gioco innocente? Liv, la preside della scuola e amante del padre di Jamie, deve trovare la forza per confrontarsi con i propri stati emotivi conflittuali e con una comunità profondamente turbata.
RECENSIONI
Iniziamo dal titolo: in norvegese la parola “barn” significa letteralmente – e semplicemente – “bambini”. Il sottotitolo scelto per la distribuzione internazionale, invece, complica un po' la questione: “attenti ai bambini”, da cui si deduce che la storia che si para davanti ai nostri occhi racconterà sì l'infanzia, ma da un diverso (nuovo? Anomalo?) punto di vista. In effetti l'incipit del film di Dag Johan Haugerud ci dà pienamente ragione: non inquadrata dalla cinepresa, la tredicenne Lykke ha un apparente scontro con il compagno di classe Jamie, che ferisce mortalmente. Siamo nella stessa identica posizione degli adulti (genitori, insegnanti, semplici estranei come noi) che devono comprendere e giudicare l'accaduto, stabilendo chi abbia commesso il crimine e se di crimine si possa parlare, quale punizione infliggere e se sia ammissibile ricorrere ad una punizione. Perché l'accaduto appartiene all'ambito delle questioni scabrose che non si vorrebbero mai affrontare, ai fatti sconvenienti che scompaginano la normale valutazione e logica delle cose. Torna in mente il pur diversissimo Il sospetto di Thomas Vinterberg, in cui nonostante alla fine del percorso filmico non ci sia una colpevolezza stabilita, l'adulto risulta per forza di cose colpevole (per inciso, di pedofilia), perché con l'etica e con la morale non si scherza e la famosa “innocenza fino a prova contraria” può essere in determinati casi (?) rimessa in discussione. Ma in Barn siamo davanti ad una morte e di fatto ad un omicidio, perpetrato da una pre-adolescente nei confronti di un coetaneo: che fare? Cosa succede in una piccola comunità della classe media (in questo caso, di Oslo) quando un bambino ne uccide – volontariamente o non – un altro? Succede, come in un effetto domino, che l'evento smette di riguardare il diretto interessato ed inizia ad avere a che fare con chi gli gira attorno in modo diretto e indiretto, scatenando una successione incontrollata di dilemmi, rappresaglie, constatazioni. E, soprattutto, domande.
Le colpe dei padri ricadranno biblicamente sui figli: quali aspettative abbiamo nei confronti della nostra progenie? Come vorremmo inserirla nella società? Come spiegare, anzi, la società, senza condizionamenti? Argomenti densi e complessi, che la sceneggiatura scritta dallo stesso Haugerud – la cui principale attività è quella di romanziere – affronta come si trattasse di un manuale psico-didattico o di un saggio pedagogico. Difficile entrare in sintonia con Barn, col suo distaccato razionalismo e con il suo inquadrato e impermeabile realismo. È, evidentemente, una consapevole volontà filosofica e teorica, un calcolo preciso, che porta con sé numerosi pregi e altrettanti difetti: la ricchezza dei contenuti ideologici, psicologici e politici, grazie ad un campionario di personaggi sfaccettato ed eterogeneo, su tutti l'iroso esponente della destra norvegese padre del ragazzino morto e l'insegnante colpevolmente assente al momento del misfatto, si scontra con l'eccessiva pulizia tecnico-stilistica, asettica qua e là fino alla monotonia. Non si sale mai realmente sul film, non si partecipa attivamente al dibattito in corso nelle riunioni scolastiche o nei confronti casalinghi; lo si osserva soltanto, da lontano, con circospezione e un po' di timore, stupendosi semmai per l'incastro calibratissimo dei meccanismi logici e per l'acutezza – a tratti però poco verosimile – delle riflessioni e degli scontri verbali. L'inestricabilità del caso di coscienza e l'instabilità dell'umanità in gioco, fulcri della narrazione, ci arrivano come un'erudita ricostruzione televisiva “tratta da una storia vera”, come un approfondimento educativo da cui attingere per una lezione o per uno studio comparato. È la potenza dell'assunto di base a tenere in piedi Barn, e anche se si ammira la volontà di rendere oggettiva ogni sequenza e situazione senza macchiarle di retorica e pregiudizio, permane l'idea di un lavoro che ha poco di cinematografico e molto di scientifico, a cui manca un po' un'anima e una scintilla di vita per potersi definire pienamente riuscito.
