TRAMA
A Hillsborough, piccolo centro della campagna della Carolina del Nord, Adam, Bobby e Caroline trascorrono il loro ultimo anno di scuola.
RECENSIONI
Ritratto di giovinezza nella profonda provincia americana: abitudini divenute rituali, routine cristallizzata fino a rendersi impercettibile. Così il baseball è per illudersi, il sesso (anche illecito) per non pensare, il ballo, feste e festini fanno patetico diversivo. Poco altro: su tutto incombe una solitudine plumbea e nessuna prospettiva di uscire da questo microcosmo, dal pantano nel quale si galleggia, in cui affondano le proprie radici e affoga la prospettiva di un futuro diverso. Una natura-matrigna che è prigione a cielo aperto in cui domina lo spleen, in cui i genitori sono presenze evanescenti, ex giovani che ieri hanno vissuto lo stesso ciclo e oggi cercano di convivere come possono con la disillusione. E che al meglio sono indifferenti, al peggio perpetrano violenze fisiche e morali (indicibili e perciò invisibili, e viceversa), come una vendetta insensata contro il loro destino.
Pedinamenti, avvicinamenti e distanziamenti di due ragazzi (significativamente indistinguibili) secondo una maniera che ricorda il Gus Van Sant della tetralogia anni zero: scivolare sulla superficie delle cose, empatia e distacco, dentro e fuori dal gioco del turbamento. Si aggiunga un po’ di Larry Clark (ma senza la prurigine) e un filo di Coppola (le vergini di Sofia, certo, ma anche il misconosciuto gioiellino Palo Alto di Gia). Ma al di là delle ascendenze, più o meno esibite, dei riferimenti, più o meno volontari, l'artista Grear Patterson (sotto l’egida di Olmo Schnabel, che qui produce), al suo debutto dietro la macchina da presa, rivela una capacità di dipingere le situazioni affidandosi tanto alle parole quanto a decisivi silenzi, senza marcare un intreccio, lasciando solo intuire lo svolgimento di storie che non si ha la necessità assoluta di chiudere. Oppure sì, di farlo, ma usando il modo più brutale: a dire che se di coming of age si deve trattare, che lo sia con una bella stonatura sulla partitura tradizionale, con un effettaccio disarmonico che dia fastidio sul serio e guasti il mood nel finale.
Macchina da presa ondivaga e impressionista, che sposta di continuo lo sguardo per silenziare il melodramma e lasciar parlare ambiente e atmosfera, facendo intravedere, senza esternarle in rappresentazione o (dio-ce-ne-scampi) verbalizzarle, le intime emozioni dei personaggi.
Un film triste, davvero. Bellissimo, pure.
