Drammatico

MOFFIE

Titolo OriginaleMoffie
NazioneSud Africa, Regno Unito
Anno Produzione2019
Durata103'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia
Costumi

TRAMA

È il 1981 e il governo di minoranza bianca del Sudafrica è coinvolto in un conflitto al confine meridionale con l’Angola. Come tutti i ragazzi bianchi che hanno più di sedici anni, Nicholas Van der Swart deve prestare due anni di servizio militare obbligatorio per difendere il regime dell’apartheid. La minaccia del comunismo e “die swart gevaar” (il pericolo nero) sono più vivi che mai. Ma questo non è l’unico pericolo che Nicholas si trova ad affrontare. Deve  infatti sopravvivere alla brutalità dell’esercito: cosa che diventa ancor più difficile quando nasce un legame tra lui e un commilitone.

RECENSIONI

Il titolo è una chiara dichiarazione d’intenti. Il termine Afrikaans moffie corrisponde infatti al nostro checca e nel 1981, in cui è ambientato il film, l’omosessualità rappresenta una delle massime vergogne insieme all’essere nero o comunista. Il giovane protagonista, obbligato a partire soldato, si trova a dovere fronteggiare le storture dell’esercito - in cui il percorso di crescita passa attraverso umiliazioni, derive machiste e annientamento psicologico - con la necessità di nascondere le sue inclinazioni sessuali, pena il confinamento nel famigerato “reparto 22”, una sorta di ospedale psichiatrico dove lo scopo è essere “rieducati” per mettere a tacere definitivamente il proprio moffie interiore. Il film affronta la ricerca dell’invisibilità del giovane protagonista costruendo un cammino inverso alla consueta “formazione”. Ciò a cui assistiamo è infatti lo sgretolamento del sé per poter sopravvivere in un ambiente ostile e brutale dove si inneggia alla ferocia. Con grande tensione il regista Oliver Hermanus – alla sua quarta regia dopo Shirley Adams (presentato nel 2009 a Locarno), Beauty (al “Certain Regard” di Cannes nel 2011) e The Endless River (nel concorso di Venezia nel 2015) - crea un’empatia immediata con il giovane protagonista. Noi siamo i soli, insieme forse a suo padre (bella la sua presenza poco calcata eppure incisiva), a sapere cosa prova, cosa spera e cosa teme nel contesto opprimente in cui è costretto a relazionarsi.

Unica speranza, in un mondo alla rovescia, è il rapporto di complicità che si crea con un giovane commilitone del suo stesso reparto, unico raggio di sole in un universo buio dove la sola forza che pare avere significato è quella fisica. La macchina da presa cerca gli sguardi ed è attraverso quelli che comunica gli stati d’animo dei personaggi, il più delle volte impossibilitati, o incapaci, di esplicitare a parole il proprio sentire. Molto efficace, sia nella tecnica che nella funzione narrativa, il piano sequenza centrale che mostra la prima volta in cui il protagonista, bambino in piscina con la famiglia, esce dalla sua invisibilità per entrare nel tritacarne del giudizio altrui. Una sequenza forte e simbolica, importante per comprendere il tipo di approccio alla vita e alla propria identità che intere generazioni hanno subito e continuano a subire, in parte anche a portare avanti. Più a suo agio nello scavo interiore che nelle sequenze di azione, il regista fa un film duro e teso che gioca di sottrazione e non trova mai, volutamente, quell’esplosione che avrebbe potuto esacerbare, ma risolvere, i conflitti. Qui tutto appare esplicito eppure contratto, perché è la repressione e l’annullamento delle pulsioni di cui il film si vuole fare veicolo; la possibile liason, che il finale non celebra, è solo una tessera del puzzle, non il puzzle stesso.