TRAMA
La città trabocca di drogati, molti dei quali non hanno una casa. Samad, membro della squadra narcotici della polizia, è sulle tracce di un boss della droga, Nasser Khakzad. Dopo varie operazioni, Samad riesce a rintracciarlo nel suo attico, dove l’uomo ha tentato il suicidio. Sopravvissuto, Nasser attraversa tutte le fasi del procedimento legale, fino alla condanna a morte e all’esecuzione, ma Samad si rende conto che a far arrivare Nasser a quel punto sono state anche le drammatiche condizioni sociali in cui si è ritrovato a vivere.
RECENSIONI
Il riferimento del titolo è duplice. A fronte di un uso di 10 tonnellate di stupefacenti al giorno, 6 milioni e mezzo è il numero di tossicodipendenti in Iran. Ma il titolo gioca anche con un'altra cifra: 6.5 sono anche i chilogrammi di droga fisicamente presenti nel film, sommando i 6 principali (spacciati per 8) al mezzo al centro del prologo.
Just 6.5 è un noir frenetico, caotico, iper-dialogato, che rimanda strutturalmente, tematicamente e visivamente ai codici (tele)visivi dettati da The Shield e che, nelle sue due ore e un quarto di durata, eviscera con ritmo serrato la lotta senza quartiere che imperversa tra organi di giustizia, narcotrafficanti e comuni abusatori, lotta che, ciò nonostante, risulta in uso e richiesta di droga sempre in aumento.
A spiccare sono le due grosse scene di massa: la prima relativa all'enorme retata nel fondo edile popolato da tossicodipendenti; la seconda, immediatamente successiva, relativa alla procedura d'introduzione nel carcere. Ognuna delle due scene racchiude perfettamente in sé le due anime e i due binari su cui si muove il film. Nella retata infatti si dispiega perfettamente la messa in scena della confusione dilagante, con la macchina da presa che in lunghi carrelli tra tubi di cemento armato insegue i tossici messi in fuga dalla polizia, che si agitano e disperdono come le formiche in un formicaio scoperchiato. L'incarcerazione invece lavora di contrappasso e comprime i corpi nudi dei detenuti in un ambiente chiuso, in contrasto con lo spazio aperto del fondo edile, imponendo in piani molto più statici claustrofobia d'ambiente e metodologia rigida e opprimente delle forze dell'ordine.
Saeed Roustaee serra le persone in ambienti chiusi, dove il colore dal cemento detta la tinta alla fotografia e appiattisce volutamente l'immagine e le differenze, per trasmettere la difficoltà di distinguere i carcerati dai carcerieri e i criminali dai tutori della giustizia. Il regista abbatte costantemente le differenze morali delle fazioni, mettendo in discussione – come ogni buon noir – l'assolutismo del bene e del male, disseminando la vicenda di episodi che dapprima sembrano marginali, salvo poi integrarli e sfruttarli per sottolineare nuove dinamiche e nuove tinte del caos nello sfaccettato e interconnesso intreccio di vicende che impossibilitano lo spettatore ad etichettare a persone e azioni il termine universale di giustizia. Ne sono un ottimo esempio i metodi intimidatori contro i comuni cittadini che in prima battuta sembrano essere innocenti vessati gratuitamente, salvo poi rivelarsi colpevoli in prima persona, giustificando almeno parzialmente le pressanti pratiche perpetrate dalle autorità. L'ago della bilancia oscilla costantemente tra giusto e sbagliato, portandoci persino a simpatizzare con gli spacciatori, o se non altro vederne le ragioni e i risvolti positivi – vedi: la danza del bambino nel finale – ma prendendo le dovute distanze dai tossici più comuni. Alla massa, proprio quella del titolo, causa e conseguenza ultima dell'indagine del film, viene concessa minor caratterizzazione ma ampio spazio visivo comune, come se il regista volesse far parlare ed agire le menti pensanti, accettando di approfondirle e permettendogli di esprimersi a tutto tondo, ma negando agli utilizzatori un profilo psicologico sfaccettato comune perché impossibile da tracciare. Perché qui si sondando le dinamiche a monte, non le ragioni dell'utilizzo.