TRAMA
Cosa succederebbe se alla vigilia del diploma ti accorgessi di non esserti goduto davvero gli anni del liceo perché troppo preso solo a studiare? Questo è quello che accade alle due protagoniste di questa divertente commedia teen che decidono di concentrare quattro anni di divertimento in un’unica indimenticabile e folle notte. (dal sito Eagle Pictures)
RECENSIONI
L'adolescente, e il suo desiderio di essere contemporaneamente come tutti gli altri e come nessun altro.
Jacques Drillon
L’esordio registico di Olivia Wilde, attrice che ha all’attivo collaborazioni con Andrew Niccol (In Time), Ron Howard (Rush) e Spike Jonze (Her) si intitola, in lingua originale, Booksmart. Lo potremmo tradurre come persona preparatissima, ma anche come topo da biblioteca, intellettuale. Nelle nostre sale, il film, uscito lo scorso 22 agosto, ha invece il titolo di La rivincita delle sfigate. La ragione di questa scelta riguarda senza dubbio la necessità di risultare appetibile per il target di riferimento, individuato tra ragazzi dell’età dei protagonisti, o comunque tra appassionati di un filone assai ampio di teen movie, più simili a disaster quotidiani che ad autentici coming on age. Tuttavia la scelta risulta provvidenziale, a suo modo e magari suo malgrado, poiché delinea un primo confine che è quello della percezione che si ha di se stessi e che di noi hanno gli altri; si tratta di un aspetto particolarmente complesso nell’età in cui non si è più bambini e si cerca una possibile strada per approdare nell’agognata adulthood. Molly e Amy, le protagoniste di Booksmart, tipiche secchione con ottimi voti e, in tasca, l’ammissione a due tra i college più prestigiosi degli Stati Uniti, potrebbero infatti essere considerate, come avviene, delle emarginate, in poche parole, delle sfigate. Secondo un processo di rispecchiamento con i propri coetanei, piuttosto normale, fisiologico, durante l’adolescenza, quando la figura genitoriale – in questo caso pressoché assente, o comunque innoffensiva – viene sottoposta a un processo di rinegoziazione che muterà ruoli e gerarchie, le due ragazze potrebbero sentire di corrispondere alla definizione che viene attribuita loro. Oppure potrebbero rifiutarla, eccedendo all’opposto in un atteggiamento di boriosa superiorità.
La tensione tra le due istanze – il casus belli è la scoperta, da parte di Molly, dell’ammissione a Yale di un’allieva che non riteneva troppo brillante – porterà le amiche, alla vigilia del diploma, a ripensare l’isolamento degli anni liceali e a voler vivere, in una sola notte, ciò che sono convinte di non aver sperimentato negli anni precedenti. Olivia Wilde, che sembra guardare più alla dolcezza malinconica di Linklater che ai paradigmi di Greta Gerwig, è supportata da una sceneggiatura frenetica a otto mani (femminili), quasi mametiana, utile a scandire il tempo di chi ritiene – che errore! – di non avere più tempo per dimostrare di essere altro rispetto al giudizio comune. La regista, senza guizzi, ma con un rigore affettuoso, imbastisce un viaggio che, pur utilizzando ogni cliché del genere (la festa alcolica, gli amori complicati, la tipizzazione dei ragazzi, quasi verosimili, ma poco veri, le liti e le riappacificazioni), riesce ben presto a oltrepassare la linea del già visto, consentendo alla storia di virare sul terreno del simbolico. La ricerca di una particolare festa diviene dunque il viaggio di Alice (delle due Alice, una, lesbica dichiarata, ma senza esperienza, l’altra, invaghita del belloccio della classe e incapace di accettare la propria superficialità) in una Wonderland che ha i confini dell’età che può essere grave, ma che è anche, specie se vista con gli occhi degli adulti, quella nella quale ogni sogno è ancora sognabile. Gli incontri che fanno durante il percorso – come sempre molto più importante della meta che poi non è mai tale – rappresentano altrettante fantasie/tappe pedagogiche e come tali vanno interpretate. Proprio come nel caso della bambina carrolliana, il mondo narrativo, senza per questo che si debba scalfire l’impalcatura da commedia adolescenziale, diventa un universo lisergico – con una fragola, al posto del celebre funghetto, e una parola magica, Malala, dal nome della più giovane vincitrice del Premio Nobel per la pace, a mo di safe word – nel quale tutto può succedere. Poiché sono Molly e Amy a crearlo e ricrearlo, imparando dall’esperienza, mentre lo immaginano. Allora il preside Brown arrotonda come driver notturno e possiede decine di caricabatterie per lo smartphone (ciò che non c’è, ciò che nella realtà non potrebbe esserci, la fantasia lo materializza) mentre Miss Fine, novella Fata Madrina, fornisce gli abiti migliori per il party, della taglia perfetta per entrambe. E poi c’è la squinternata Gigi – una deliziosa Billy Lourd – che funge da stravagante, onnipresente Bianconiglio e scandisce i minuti di quella notte folle, la notte prima degli esami, diremmo noi, la notte prima della consegna del diploma, secondo il sistema americano.
Non è tutto semplice, si capisce, in un turbinio di corse in macchina e di innocue infrazioni: il grande amore forse non è amore, e comunque ama qualcun altro, i primi contatti sessuali sono goffi e imbarazzanti, all’interno dei rapporti di amicizia si presentano elementi disfunzionali non meno pericolosi di quelli che sopraggiungono nelle altre relazioni con i coetanei; ma c’è una freccia che indica una traiettoria possibile ed è rivolta al contrario rispetto alle convinzioni iniziali delle due ragazze. «Finalmente vi vedo», dice Molly al discorso di fine anno, preparato in origine come sermone un po’ retorico sui generi (che gran sollievo il ribaltamento giocoso degli stereotipi liberal!). Eccolo, lo scampolo di maturità: finalmente Molly e Amy vedono davvero gli altri e, attraverso questo sguardo, ironico e sorprendente, empatico, stanno imparando a vedere meglio, a conoscere meglio anche loro stesse, come giovani donne che desiderano e sbagliano, anche, che si concedono la leggerezza di una stupidaggine, tipo desiderare il corpo di una ben poco femminista pseudo-Barbie. Non si tratta di resettare attitudini o convinzioni, di diventare altro per accondiscendere al volere di qualcuno – Molly continuerà ad aspirare alla carriera legale di Ruth Bader Ginsburg e Amy partirà per il suo anno sabbatico in Africa – ma di accettare le proprie, piccole insicurezze, di perdere magari il controllo, ogni tanto. Ché, noi lo sappiamo, loro ancora no, il tempo scorre in modo diverso a ogni età, e, in quella in particolare, vale la pena di viverselo tutto, tra un pianto non trattenuto, una risata a crepapelle, qualche pancake e l’ebbrezza di salire per ultimi su un volo che è più di tutto un desiderio di emancipazione, di reale libertà; che è più Harold che suona il banjo in cima alla scogliera, e poi si allontana, col carico della propria consapevole (in)felicità, che il salto giù nel Dead Horse Point di Thelma e Louise.
Ricordiamoci cosa cantava The Voice, scandendo ogni strofa con una diversa modulazione del titolo: «When I was seventeen, it was a VERY good year». Ma forse Gigi, se fosse potuta tornare in scena un’ultima volta prima del the end, avrebbe gridato ciò che ci hanno insegnato i Jefferson Airplane e ciò che Molly e Amy, senza ghiri consiglieri o pillole, non smetteranno di fare: feed your heaaad, feed your heaaad.
