Titolo OriginaleTrudno byt bogom
Anno Produzione2013
Genere
Durata177'
Sceneggiatura
Trattodall'omonimo romanzo di Arkadij e Boris StrugackijFotografia
Montaggio
Musiche
TRAMA
Un gruppo di scienziati viene inviato sul pianeta Arknar per salvare un gruppo di intellettuali e portare alla civiltà gli abitanti del luogo, fermi al medioevo.
RECENSIONI
Quando Éric Rohmer girò Perceval le gallois pensò di interpretare il Medioevo non da una prospettiva novecentesca, bensì attingendo all'autorappresentazione che l’epoca fece di sé attraverso la produzione artistica del periodo. Il risultato è un’opera straniante volta a ricostruire il senso di un’esperienza estetica che è anche e soprattutto un’esperienza di visione: il fine, ancora oggi, è di spingerci a guardare le cose come se le vedessimo con occhi medievali. Rohmer sceglie di affidarsi a una fonte più diretta rispetto a qualunque ricostruzione storiografica: la materialità del colore, delle forme e delle parole con cui gli uomini del Medioevo si sono rappresentati. Per la riuscita del suo progetto il regista si affida soprattutto a una sua ossessione critica, che è la chiave di volta del suo approccio al cinema: l’organizzazione dello spazio filmico ( L’Organisation de l’espace dans le «Faust» de Murnau). In Perceval occorreva costruire uno spazio altro, che aiutasse chi guarda a rivedere il proprio orizzonte di attesa rispetto all’organizzazione del racconto: ecco allora che, invece di disporre la narrazione visiva lavorando sulla profondità, il viaggio del protagonista si traduce in un movimento ondulatorio da destra a sinistra e ritorno che invita lo spettatore a formulare nuove coordinate di rappresentazione rispetto a quelle usuali. Del resto per Rohmer: «Il cinema sopravvivrà finché si continuerà a considerare il pubblico come qualcuno che è capace di fare uno sforzo».
Dev’esser stato più o meno lo stesso pensiero di Aleksey German, soprattutto se facciamo riferimento al sul ultimo film, È difficile essere un dio: opera postuma (il progetto è stato portato a termine dal figlio, Aleksej German jr., e da Svetlana Karmalita, sua compagna di sempre e collaboratrice anche nel coltivare i giovani talenti della Lenfil’m) tratto dall’omonimo apologo, cupo e pessimista (in cui vengono denunciati, in chiave distopica, gli orrori della dittatura e della repressione culturale), scritto dai fratelli Arkadij e Boris Strugackij, il duo cult della fantascienza sovietica, già autori del romanzo, Picnic sul ciglio della strada, da cui Andrej Tarkovskij ha liberamente tratto Stalker e di Un miliardo di anni prima della fine del mondo, racconto che ha ispirato I giorni dell’eclisse di Aleksandr Sokurov.
Il film, ci avvisa la voce narrante, è ambientato su Arkanar; «non è la Terra: è un altro pianeta, circa 800 anni indietro». Lì sono stati inviati una trentina di scienziati per salvare dalla gogna, dall’impiccagione, dalla morte per soffocamento, gli artisti, i poeti, gli intellettuali dannati e banditi dalle autorità. Tra questi, Don Rumata, angelo sterminatore in incognito, flautista e filosofo, astronomo e fisico, libero di agire ma senza interferire in maniera diretta nelle dinamiche che governano questo mondo che appare come un ammasso d’immagini liquamose, riempite fino all’inverosimile di figure aberranti, distorte e astigmatiche, dai modi e dalle fisionomie inquiete, ciascuna, nel proprio piccolo, a rappresentare un presagio di sventura. Un cartello, posto in esergo, dovrebbe avvisare: «Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate» perché ciò che si para di fronte agli occhi dell’impreparato spettatore, o da chi non è disposto a sostenere un immane sforzo, è un universo asfittico vicino agli incubi di Bosch o di Bruegel, più barbaro e arcaico, colto in fase ulcerosa, prossimo a un rinascimento che non riesce mai a nascere, attraversato da rivolte contadine represse da cosche armate in marcia allo sbando, carni umane appese e o appestate ma comunque insudiciate, cibo esagerato dei ricchi e fame atroce dei poveri, castelli grigi, monasteri incombenti, apprendisti stregoni…
Un autentico delirio cosmogonico, una fracassonata iconoclasta che si realizza per mezzo di un horror vacui travolgente, soprattutto per il fatto che le tantissime cose appaiono sempre troppo vicine, come se lo sguardo non riuscisse mai a posizionarsi alla distanza ottimale. La costruzione che German fa dello spazio, e in questo ritroviamo l’influenza rohmeriana, contrasta, infatti, la struttura prospettica e l’idea che ne consegue di profondità come dislocazione tridimensionale di punti fissi e ordinati. La prospettiva, ci ha insegnato Erwin Panofsky, è una forma simbolica, un costrutto attraverso cui è stato possibile, dal Rinascimento in avanti, esprimere un’idea di spazio inteso come qualcosa di infinito, omogeneo e sistematico e quindi rappresentabile mediante regole geometrico-matematiche. German trovandosi a mettere in scena un ipotetico Medioevo sceglie perciò di adottare una rappresentazione prerinascimentale: da una spazialità certa, stabile, esattamente conoscibile e conosciuta, si passa a una spazialità incerta. Il lavoro compiuto sulle immagine si rispecchia a livello di organizzazione filmica: in È difficile essere un dio assistiamo alla perdita dell’interezza, della globalità, della sistematicità ordinata in cambio dell’instabilità, della polidimesionalità, della mutevolezza. Di fronte alla complessità, alla densità e alle ambizioni di quest’opera (che vuole essere ed è una sorta di palingenesi dell’esperienza cinematografica, un punto zero, una frattura netta che divide con un prima e un dopo) lo sguardo abitualmente adoperato si scopre disorientato e impreparato; del resto, come ha scritto Umberto Eco,: «È probabilmente difficile essere un Dio ma è altrettanto difficile essere uno spettatore, di fronte a questo terrorizzante film di German».