TRAMA
Due studenti, un bandito locale e un vecchio pensionato intrecciano i loro percorsi in una degradante periferia cinese. Cercando di alleviare la sofferenza esistenziale che li accomuna, si incammineranno fuori città, verso un elefante lontano che si racconta sia capace di resistere a tutti i dolori del mondo.
RECENSIONI
Voci diverse, sempre fuori campo, riportano la storia di un circo e del suo elefante nel nord della Manciuria. L’animale si trova nella cittadina di Manzhouli e si limita a stare lì, sempre seduto e immobile, vivo, forte del magnifico e illimitato potere di restare indifferente al mondo, ai bisogni della fame e della sete, alla sofferenza. Atarassico. Per alcuni è certo una condanna, quest’immunità a tutto ciò che è e potrebbe essere, ma non per chi vive la sua esistenza e il contatto con gli altri nei soli termini della sofferenza e del vuoto, dell’inferno che massacra giorno dopo giorno e consuma ogni significato. In forme e intensità diverse, i quattro personaggi di An Elephant Sitting Still condividono un’angoscia esistenziale che si fa sempre più opprimente, e che sopratutto ogni incontro e circostanza esterna sembrano rilanciare come perversi complici di una giostra che non prospetta alcun senso.
Con questi pensieri combatte Wei Bu, adolescente dal padre violento e distaccato che per difendere un compagno di classe causa l’accidentale morte di un bullo; Ling, sua amica e oggetto del desiderio, che sfugge alla psicosi della madre e all’assenza del padre rifugiandosi nelle braccia di un meschino vicepreside afflitto dal più misero cinismo; Cheng, fratello del bullo ucciso ma soprattutto responsabile del suicidio di un suo caro amico, di cui ha conquistato la moglie alterandone fatalmente gli equilibri; e infine il vecchio Wang, sul procinto di essere mandato in una squallida casa di riposo dalla propria famiglia, ormai stanca di condividere con lui gli spazi domestici e bisognosa di maggior indipendenza. Seguiti per una sola lunga giornata, dall’alba alla notte, i quattro incrociano i loro percorsi formando una rete che forse si configura come l’unico antidoto al dolore del reale. La prospettiva che li spinge però è ben lontana dall’essere una fonte di palingenesi o energia interiore, ma è, appunto, l’elefante immobile di Manzhouli, forse miraggio forse realtà, immunità attraverso il distacco come sola salvezza che sia possibile concepire.
Presentato in anteprima mondiale nel Forum del Festival di Berlino, e da lì mostrato nelle selezioni di molti altri festival in giro per il mondo, An Elephant Sitting Still è uno dei film più potenti del 2018, e indubbiamente uno dei grandi esordi cinematografici di questi anni Duemila. Lungo pressoché quattro ore, girato principalmente in lunghi piani sequenza, pianificato al dettaglio nel suo complesso e compatto intreccio spaziotemporale, è un film dal respiro e dall’ambizione sorprendenti, specie se consideriamo che a realizzarlo è stato un giovane scrittore di soli 28 anni, che adatta una sua storia e si reinventa regista rivelando enormi capacità tanto nella costruzione del racconto quanto nell’ideazione stilistica.
Di questo parleremo, ma anzitutto è necessario citare un fatto, definitivo: Hu Bo, il giovane regista del film, si uccide a fine 2017 dopo aver concluso il montaggio della sua opera; la motivazione scatenante pare sia stato un profondo dissidio con i produttori riguardo alcuni aspetti del film. Non è la prima volta che accade una circostanza simile, certo, eppure in questo caso non si può essere a conoscenza di ciò e vedere An Elephant Sitting Still con gli stessi occhi di prima; e non per ricadute emotive, ma strettamente esegetiche. Scrivere del film, qui, adesso, significa affacciarsi sul bordo di una trappola in cui è facilissimo cadere, ovvero quella della lettura critica a posteriori, blindata, eterodiretta da una tragedia che si offre come facile e immediata chiave di lettura del film. Ma possiamo comprendere, riflettere, dialogare con An Elephant Sitting Still ignorando il suicidio di Hu Bo? Possiamo considerarlo un elemento esterno all’opera, non necessario o addirittura inquinante? O dobbiamo piuttosto penetrare il tessuto del film tenendo presente l’autodistruzione del suo regista, pur sapendo che ormai non può esserci alcun controcampo che possa smentire associazioni e paralleli? La verità è che An Elephant Sitting Still, come e più di altre opere d’arte, è e rimane un testo aperto, non certo a tesi, nel quale però la vita reale si infiltra in un modo che non è comunque possibile ignorare. Diversi sono i personaggi del film che esplicitano una visione della vita per cui l’esistenza è solo un accidente causante una sofferenza intrinseca e inevitabile, conseguenza naturale dell’esser venuti al mondo; si dichiara molto chiaramente l’assenza di speranza e cambiamento, la prospettiva assoluta di un orizzonte di dolore e vuoto. Ma rispetto ad altri e ben più prolifici registi che da tempo si relazionano attraverso la loro arte con un simile pessimismo (diversi dei quali, come Bela Tarr, hanno speso pubblici elogi per il film), Hu Bo non configura questa convinzione come una filosofia di vita con la quale sia comunque possibile convivere. La prospettiva tracciata dai vari punti di vista disseminati nel racconto è opprimente in termini assoluti e depotenzia pressoché ogni azione che possa ergersi come alternativa o fuga o cura. È un film disperato An Elephant Sitting Still, e la cosa che più sconvolge nel corso della visione è l’enorme capacità empatica di Hu Bo di condurci in un territorio così cupo e desolante, permettendoci di toccare con mano mostruosità psichiche più o meno familiari ma comunque tremendamente umane. Ma è qui che si spalanca la trappola di cui si parlava, la tentazione di definire un film simile come un riflesso necessario ed espressivo della depressione, intesa – parola chiave del tranello – in senso strettamente clinico. Da questo punto di vista, An Elephant Sitting Still è quanto di più vicino ci sia all’autopsia autoinflitta di una mente che soffre, indaga, cerca attraverso il cinema di mettere in scena sé stessa e la propria malattia per trovare forse una cura. Lungo questa strada però l’esegesi del film rischia di rovesciarsi in presuntuoso scavo di ciò che, di fatto, non è più possibile sapere. Per questo motivo, dovendo pur districare la matassa, sarà meglio ora far parlare le immagini stesse, le sole autonome e con l’ultimo diritto di parola, e talmente ricche e vaste da contenere al loro interno il materiale per altri due, tre, quattro film.
A prima vista An Elephant Sitting Still potrebbe essere definito come l’ennesimo “film di nuche”, costruzione cinematografica frutto della progressione lineare di personaggi seguiti alle spalle da una camera a mano costante. Del resto quello di Hu Bo è un film di pedinamento che abbraccia il realismo quotidiano di tempi vuoti, attese, corpi seguiti attraverso uno spazio periferico e povero e profondamente disgregato che è causa integrante del loro malessere. Ma, in maniera davvero sorprendente, Hu Bo supera questa dimensione ormai così manieristica e definita e, diciamolo, facile di rapportarsi al reale, individuando un equilibrio linguistico tra neorealismo e costruzione drammatica, un incontro di forme che esalta la forza poetica del primo ricorrendo comunque all’elaborazione formale del secondo. Hu Bo gira sempre in camera a mano, costruisce i suoi piani sequenza seguendo i personaggi, ma nel film non c’è mai quella frenesia traballante che marchia oggi il cinema delle periferie e del quotidiano; An Elephant Sitting Still si prende tutto il tempo necessario a farci immergere nello spazio e nella mente dei suoi personaggi, ma alla forza poetica del tempo che si avvita su sé stesso – e che con l’accumulo ci porta sempre più dentro ai protagonisti del racconto – Hu Bo alterna momenti in cui lo stile diventa una marca evidente, vuoi per l’uso della musica o per dei movimento di macchina particolarmente ricercati, che spezzano il rigore di un’estetica esaurita e così ombelicale nei confronti della quale Hu Bo cerca attivamente vie di fuga, alternative vitali. Trovandole con queste incursioni di stile che rivoluzionano l’equilibrio interno a questo tipo di cinema esaltando l’esplorazione umana dei caratteri messi in campo.
An Elephant Sitting Still non è un film costruito a tavolino in cui è lo sguardo a plasmare il reale adagiandosi a soluzioni standardizzate; piuttosto è un’espressione irruente e dolorosa, più o meno interconnessa alle tragedie del reale, la cui urgenza di capire, mostrare, condividere, è sempre finalizzata a esaltare la centralità dei personaggi, attorno ai quali ogni apparato di supporto fallisce – famiglia, scuola, relazioni – se non quello ultimo individuato in questa nuova, casuale rete umana che viene a crearsi tra i personaggi. Il legame solidale che chiude il film li porta, stretti tra loro dopo l’ennesima lunga giornata di sofferenza, a contatto con quella che è forse l’unica soluzione possibile, l’atarassia. Se sia poi, questo distacco così radicale da ogni dimensione umana, una cura sufficiente e veramente valida al disagio interiore, o solo un palliativo che amputa e cauterizza e uccide il potenziale del sentire ma non offre alcuna soluzione utile, resta allo spettatore deciderlo.