TRAMA
Boss di una casa editrice, stressato dal lavoro, Fausto Di Salvio parte con il suo ragioniere per l’Africa, sulle tracce del cognato scomparso che ha lasciato vari segni di sé, nei panni di sacerdote, ingegnere e trafficante d’armi.
RECENSIONI
Il quarto lungometraggio di Ettore Scola non fa presagire l’autore che sarà: un compito riservato al successivo Il Commissario Pepe. Qui si prodiga, ripagato dal botteghino, per essere meramente commerciale, per quanto non manchi, con Age e Scarpelli alla sceneggiatura (e in assenza del solito Ruggero Maccari), di scoccare l’arco per frecciate di stampo politico nei confronti della contemporaneità, attraverso il mito del buon selvaggio e quello della fuga in luoghi dove la disumanizzante civiltà del capitalismo è assente. Ma sono riflessioni da cartolina, da agenzia di viaggi e, in quel d’Africa, sono tutti in vacanza: la regia è spesso alla ricerca dell’esotismo con espedienti e significanti superficiali, intenta ad imbastire un film di viaggio come nel precedente La Congiuntura (parimenti turistico) e un’avventura tanto puerile che pare uscire dal ‘Corriere dei Piccoli’ (per quanto, fra le righe, ci s’ispiri a Salgari e Verne). A seguire, la paura dell’animale selvaggio, il topos dell’attraversamento del deserto, vari tratti scontati su di un continente cui non si rende un grande servizio, e la figura fantomatica (il cognato scomparso) che non assurge mai a mito rappresentativo di una scelta di fuga esistenziale ma, al limite, lambisce la farsa parrocchiale (Nino Manfredi stregone…). Lo Scola comunista fa capolino in vari dettagli, frasi pronunciate contro il principale dal ragioniere di Bernard Blier, rivolte contro i soprusi di colonialisti ed ex-schiavisti, ma a portare avanti la baracca è una comicità grossolana, nemmeno tanto divertente, senz’altro sofferente di invecchiamento precoce.