TRAMA
Oregon, 1851. I fratelli Charlie ed Eli Sisters, sicari al servizio del commodoro, sono incaricati di rintracciare ed eliminare Hermann Kermit Warm, un chimico in possesso di una formula per trovare l’oro con facilità. Ma nel corso della ricerca le cose cambiano e, una volta raggiunti Warm e il suo socio John Morris, la situazione si complica ulteriormente.
LEONE D’ARGENTO PER LA MIGLIOR REGIA A VENEZIA 2018
RECENSIONI
Perdite formative
Ormai lo vado dicendo da anni: la dinamica fondamentale del cinema di Jacques Audiard risiede nel percorso che impone ai suoi personaggi. È a partire dal suo primo film, il bellissimo polar Regarde les hommes tomber (1994), che Audiard non fa altro che raccontarci questo: la storia di individui che, messi con le spalle al muro da eventi fortuiti e circostanze eccezionali, scoprono o esaltano un talento sconosciuto o sopito. Detto più semplicemente, il suo è un cinema della trasformazione. Ancora meglio: di una trasformazione che diviene a tutti gli effetti formazione esistenziale. Di fronte ai suoi film siamo sempre - e sottolineo sempre - alle prese con dei romanzi di formazione, a prescindere dal genere frequentato occasionalmente (si va dal polar al carcerario, passando per il dramma sentimentale e quello di sradicamento). Per Audiard, insomma, il genere non è che lo schermo dietro il quale si nasconde un’esigenza ben più sostanziale, quella della trasformazione/formazione individuale. Vero è che il grado di coinvolgimento nel genere di volta in volta frequentato varia di intensità: sembra particolarmente forte nel quadro del noir (lo si apprezza sensibilmente in Il profeta e in Tutti i battiti del mio cuore, rifacimento del magnifico Rapsodia per un killer di James Toback) e lo sembra un po’ meno negli affreschi storici (Un héros très discret) o nei drammoni dai forti connotati sentimentali (Un sapore di ruggine e ossa e Dheepan). Ma, di fatto, la sostanza non cambia: il genere è soltanto un veicolo, una maschera dietro la quale si cela il profilo di identità cangianti, soggetti in trasformazione.
Oltre al peso specifico del dato sensoriale sempre fortissimo nei suoi film (si pensi a Sulle mie labbra, giusto per fare un esempio), occorre rimarcare che ad avviare il percorso di formazione dei personaggi è quasi sempre una perdita, molto spesso persino fisica (la mutilazione delle gambe in Un sapore di ruggine e ossa): in Regarde les hommes tomber la morte dell’amico/amato, in Il profeta la perdita della libertà e in Dheepan la rinuncia forzata al paese di nascita. Si tratta di perdite formative, insomma: la privazione improvvisa di un sostegno tanto fisico quanto sentimentale provoca un trauma che obbliga i personaggi a riformulare il proprio orizzonte esistenziale, la propria attitudine nei confronti di ciò che li circonda. A una prima fase inevitabilmente depressiva segue un processo di ricostruzione identitaria che muove dalla perdita come deficit per convertirla in occasione di crescita profondamente umana. È proprio in questo senso che il cinema di Audiard rivela un’inconfondibile vocazione umanista che potrebbe sfuggire a uno sguardo superficiale. La perdita di un’abilità o di una possibilità apparentemente vitale per i personaggi si converte, in definitiva, nell’opportunità di farli evolvere in quanto esseri umani liberi. E così quello che a prima vista potrebbe sembrare un cinema smaccatamente deterministico, in cui le circostanze decidono a priori la sostanza e le sorti dei personaggi, si rivela invece un cinema che offre loro, proprio in virtù della perdita, un’opportunità di libertà e autodeterminazione.
Tra Bildungsroman e Fairy Tale
Proviamo a questo punto a guardare I fratelli Sisters, primo film americano di Audiard apparentemente distante dalle sue coordinate cinematografiche, alla luce delle considerazioni appena fatte: non ci troviamo forse di fronte alla stessa dinamica? Non siamo forse di fronte a un film che si sviluppa esattamente come un racconto di formazione? Pur essendo tratto dall’omonimo romanzo di Patrick deWitt (che John C. Reilly ha amato fino al punto di acquistarne i diritti e produrre personalmente il film), I fratelli Sisters mette in scena una vicenda picaresca dalle forti connotazioni fiabesche incentrata sulla trasformazione di una coppia di “pistole parlanti” (Eli e Charlie Sisters, interpretati rispettivamente da Reilly e Joaquin Phoenix) in esseri umani dotati di sentimenti e liberati dal destino di sangue iscritto nel loro codice genetico. Il genere di riferimento non è determinante, in altri termini: proprio come i personaggi di Audiard evolvono svincolandosi progressivamente dal contesto che li imprigiona senza dare loro apparenti vie di fuga, così in questo caso il suo cinema si affranca dal western senza soccombere al protocollo ideologico che esso prescrive. Questo percorso liberatorio si situa esattamente tra un prologo notturno in cui Eli e Charlie sono individuati esclusivamente dalle loro armi da fuoco (la prima sequenza notturna li identifica soltanto come “talking guns”) e un epilogo radioso nel quale i due tornano a casa dalla madre per riallacciare il legame affettivo con lei e col luogo della loro infanzia. Finalmente liberi dall’eredità di sangue lasciata loro dal padre alcolizzato e violento.
Se il carattere avventuroso e picaresco del film è così palese da non richiedere approfondimenti, mette invece conto soffermarsi sulla componente fiabesca, che sposta intimamente le coordinate di I fratelli Sisters dal western al racconto di (tras)formazione. Le funzioni e le tappe del percorso fiabesco sono disseminate con misura e metodo lungo tutta la narrazione: il mandato iniziale, la missione da compiere, la presenza di aiutanti e oppositori, la formula magica e il tesoro ambito. Ma, oltre a questo repertorio di prammatica, è anche la caratterizzazione infantile di Eli e Charlie a rientrare nell’orizzonte fiabesco, così come l’occorrenza di eventi strani, minacciosi e affascinanti al tempo stesso (il ragno che si intrufola nella bocca di Eli, il sogno del padre infanticida, la fluorescenza dell’oro nel fiume). Non è fortuito che Audiard abbia chiamato in causa nientemeno che La morte corre sul fiume (1955) di Charles Laughton come pietra (miliare) di paragone. Un sapore inconfondibilmente fiabesco irrobustito dai preziosismi fotografici di Benoît Debie (numerosi i notturni chiaroscurali intorno ai falò) e dalle punteggiature sonore di Alexandre Desplat (talvolta ariose e tambureggianti, talaltra tintinnanti e sognanti).
Utopia a portata di mano
In questo scenario western debitamente “audiardizzato” ritroviamo insomma tutte le ossessioni care al regista. Eppure un elemento di novità pare spiccare con una certa incisività: il ruolo di mediatore liberatorio rivestito dal personaggio di Hermann Kermit Warm (splendidamente interpretato da Riz Ahmed, una spanna buona sopra tutti gli altri) e, per proprietà transitiva, dal suo compagno John Morris (Jake Gyllenhaal). Warm, difatti, agisce sugli individui che lo incontrano e instaurano un legame con lui esattamente come il reagente chimico che ha inventato per rendere visibile l’oro: rende prodigiosamente visibile e tangibile ciò che di buono e prezioso giace in loro. È questa l’autentica posta in palio del film: non tanto la missione dei Sisters né la corsa all’oro di Warm e Morris, quanto, più precisamente, la funzione maieutica e liberatoria esercitata dallo spiantato chimico sulle persone che gli gravitano intorno. Figura dai forti connotati cristici, Warm cambia intimamente gli individui semplicemente parlando e dando loro non soltanto l’esempio, ma anche un’idea in cui credere: un’utopia a portata di mano. Prima Morris, poi Charlie e persino l’ipercinico Eli vengono contagiati dall’ideale sinceramente utopistico di Warm. Non conta minimamente che questo naufraghi in modo drammatico, ustionato dall’avidità dello stesso Eli, rileva invece il fatto che esso riesca a seminare un germe di cambiamento liberatorio in chi sopravvive al naufragio. Dopo l’incontro con Warm le cose cambiano in modo irreversibile, non è dato tornare indietro.
Inoltre - fare attenzione - non è affatto fortuito che l’idea utopistica, congiuntamente alla dilatazione del ruolo della coppia Warm-Morris, sia stata aggiunta in fase di adattamento da Audiard e dal fido cosceneggiatore Thomas Bidegain (al suo fianco anche in Il profeta, Un sapore di ruggine e ossa e Dheepan). Espandere il duo Warm-Morris come contrappunto emancipato dei fratelli Sisters e inserire di sana pianta l’ideale utopistico di cui sopra corrisponde non solo alla volontà di prendere le distanze dal libro di deWitt e traghettare la materia romanzesca in territorio personale, ma, soprattutto, alla riconfigurazione delle peripezie dei Sisters in percorso interiore. La cosa fondamentale, insomma, diventa ciò che succede nella loro interiorità durante la missione e non più la missione come concatenazione di eventi avventurosi. Il senso di I fratelli Sisters sta tutto qui: nella trasformazione di Eli e Charlie da pistole parlanti telecomandate dal commodoro a esseri umani che usano le armi per difendersi e liberarsi dall’ipoteca di morte che il commodoro stesso (ovvio sostituto del padre ucciso da Eli) rappresenta metonimicamente. L’amputazione dell’avambraccio destro di Eli (equivalente alla mutilazione delle sue capacità professionali: è la stessa dinamica di Un sapore di ruggine e ossa) finisce così per rivelarsi un’altra occorrenza di quella “perdita formativa” connaturata al cinema di Audiard. Il talento sopito che lo spietato e cinico parricida scopre in sé è il prodotto matematico di questa perdita e dell’esempio rappresentato da Warm: diventare un uomo libero di provare sentimenti, al di là del destino di morte lasciato in eredità dal padre. Detto ancora più semplicemente l’intero film non è che la gigantesca smentita della frase pronunciata da Eli a proposito del dono lasciato dal “sangue pazzo” del padre nelle loro vene: “That blood is why we're good at what we do” (“Quel sangue è il motivo per cui siamo bravi a fare quel che facciamo”, traduzione mia). I fratelli Sisters è un secco no a questa eredità di violenza. Dei padri e del western. Un no bellissimo e struggente.