Documentario

L’ALFABETO DI PETER GREENAWAY

Titolo OriginaleThe Greenaway Alphabet
NazionePaesi Bassi
Anno Produzione2017
Durata80'

TRAMA

“La vita è arte e l’arte è vita”. Questo il motto di Peter Greenaway, filmmaker fra i più eclettici del cinema contemporaneo. Partendo da questa premessa Saskia Boddeke, artista multimediale nonché moglie del regista, fa incursione nella mente del marito. La creatività di Greenaway è incorniciata in una conversazione con la figlia adolescente Pip, che in un dialogo ricco d’ironia mette in ordine alfabetico i punti salienti della vita del padre. “A come Amsterdam”, dice Mister Greenaway, ma anche “A come Autismo”, lo incalza Pip. Le domande della figlia lo colpiscono dritte al cuore, permettendo alla moglie di trarne un ritratto unico nel suo genere: quello di un visionario, sì, ma soprattutto di un uomo e della sua battaglia contro il tempo.

RECENSIONI

Archiviato Walking To Paris, imperniato sul tragitto a piedi che portò Costantin Brancusi da Bucarest a Parigi e concepito in quattro capitoli corrispondenti alle stagioni (su IMDB rimane in status di perenne post-production: riprese iniziate quattro anni fa, probabilmente mai finite - l’autore, tra i denti, sibila «a disaster» - per uno di quei fallimenti produttivi che sembra uscito da uno dei suoi film, con l'artista che, letteralmente, fa quello che può), il Nostro era pronto a lanciarsi nell'avventura di Lucca Mortis, stoppata dalla pandemia, e che affronta uno dei nodi del documentario in esame, assumendo tutti i tratti dell'opera testamento.
In questo Alfabeto Saskia Boddeke, moglie e complice, regista con la quale oramai il gallese costituisce un binomio inscindibile per allestimenti teatrali e installazioni museali, tratteggia un profilo del marito rivoltandogli contro il suo approccio, il suo metodo, la sua estetica. L’ossessione del catalogo, lo sappiamo, caratterizza tutto il percorso cinematografico di Peter Greenaway: sistematizzare la realtà, ridurla in categorie, controllarla. Un’utopia che corteggia l’idea del fallimento, la implica. Così, partendo dall’alfabeto (come in
H is for House o in Lo zoo di Venere, solo per fare due esempi), si costringe il mondo greenawayano in una griglia che possa consentirci di tracciarne delle coordinate precise.
Impossibile: impossibile imbrigliare l’uomo come l’artista, perché inscindibili l’uno dall’altro e mentitori entrambi. Neanche quando a scavare viene chiamata la figlia Pip, in nome di un rapporto privilegiato con l’essere umano più amato: il dialogo è aperto a 360 gradi, eppure di nuovo precluso quando occorre andare a fondo (i precedenti matrimoni del regista, quelle due figlie che non vede più, quel nipote che non ha mai conosciuto). Non esiste la verità su Peter Greenaway, come non esiste sulla sua arte, sul pensiero che essa sottende, sui racconti che la contraddistinguono, certe leggende mai comprovate, i suoi aneddoti letti chissà dove (probabilmente inventati, come, qui, la storia della gorgiera che dovrebbe separare il volto pulito dal corpo sporco). Esistono ipotesi, e questo alfabeto le alimenta senza confermarne alcuna.

Qualcosa sì, si dice, ma si risolve in un piccolo tributo al ricalco di un ritratto già consegnato ad altre interviste: il rapporto col padre, tanto conflittuale quanto decisivo (la passione per l’ornitologia, la fissa per le classificazioni le deriva da lui, così come tanti suoi personaggi che diventano feticci con i quali esercitarsi a quel confronto mai avuto in vita: «Nessuna manifestazione d’affetto. Nessun contatto»).
Una maschera impenetrabile quella di Greenaway, ma incredibilmente tenera nel suo avvinghiarsi alle ossessioni, a farne il suo porto sicuro. La figlia entra nel mondo del padre attraverso la porta dell’arte, Boddeke propone spezzoni dei film (soprattutto, non a caso, dallo spudorato, egotico e fallimentare - aridaje, sia letto nell’accezione greenawayana - Le valigie di Tulse Luper), mentre, quella che sembra una parvenza di verità, emerge da piccoli dettagli del quotidiano. Ma solo per pervenire a un nuovo mito, quel suicidio programmato al compimento degli 80 anni, ennesimo manifesto apocrifo spacciato per autentico come i tanti progetti annunciati in questi anni (i suoi possibili film: la commedia nera 4 Storms & 2 Babies, la storia di fantasmi giapponesi, il porno ambientato in Brasile, la biografia di Bosch, il seguito di Eisenstein in Messico; non la finiremmo più...). Un’enciclopedia dell’uomo costruita nella coscienza della sua impossibile completezza. Così l’alfabeto non giunge alla fine, si ferma prima, la mappatura dell’uomo-artista Peter fallisce e dunque riesce, perché l’unico ritratto possibile di Greenaway non può che essere questo: incerto, dubitabile, soggetto a più interpretazioni. Inevitabilmente incompiuto.