Documentario, Sala

IL VENERABILE W.

Titolo OriginaleLe vénérable W.
NazioneSvizzera, Francia
Anno Produzione2017
Durata100'
Sceneggiatura

TRAMA

Barbet Schroeder chiude la sua trilogia del male con un documentario dedicato al monaco buddista Ashin Wiratu, leader di una fazione religiosa birmana impegnata nelle persecuzioni di minoranze musulmane.

RECENSIONI

In un tempo storico che inanella le esperienze di Donald Trump e del governo giallo-verde, le retoriche di Marine Le Pen e Nigel Farage, la società di massa sorta dalla seconda Rivoluzione Industriale sembra cedere il passo a qualcos’altro, una versione globalizzata e mediatica di quel fronte dell’uomo qualunque fondato sul finire della Seconda Guerra Mondiale dal commediografo Guglielmo Giannini (che talento che hanno gli Italiani nel farsi pionieri di dittature e storture politiche). Ieri come oggi, la parola chiave di questi movimenti è populismo, da intendere come la costruzione del proprio consenso politico attraverso una retorica che offra soluzioni semplici a problemi complessi. Semplicità per complessità, tranquillità in cambio di consenso. E cosa c’è, nel lungo periodo, di più semplice e tranquillizzante dell’odio? Cosa offre più certezze e scioglie timori di una divisione manichea tra noi e loro? L’odio sono le grandi braci su cui soffia il potere politico di questo millennio, che da un continente all’altro si nutre delle contrapposizioni di classe, religione, etnia, per rinforzare le proprie identità sociali, relegando tutta l’alterità che non rientra in Noi nell’underground del mondo (ce lo ripete in questi giorni anche Jordan Peele). È per questo che Barbet Schroeder decide di aprire il suo Il venerabile W. citando uno dei più famosi aforismi di Lord Byron («l'odio è il piacere più duraturo; gli uomini amano in fretta, ma odiano con calma»), incentrato proprio sul durevole supporto offerto dall’odio.
Schroeder ha definito Il venerabile W. il terzo capitolo della sua trilogia del male, un trittico documentaristico pensato per indagare e collegare tra loro personalità distanti per spazio e tempo ma vicine nella loro sistematica assenza di moralità. Il percorso inizia nel 1974 con, dedicato al brutale dittatore ugandese, e prosegue trentatré anni dopo con L’avvocato del terrore, ritratto del legale francese Jacques Vergès passato alle cronache per aver difeso ogni genere di criminale internazionale. Il venerabile W. si concentra quindi sulla controversa figura di Ashin Wiratu, monaco buddista della Birmania impegnato da tempo in una crociata razziale contro i Rohingya, minoranza etnica musulmana che vive nel Nord del paese e consta (almeno fino alle più recenti persecuzioni) di 800.000 mila individui, circa il 7% della popolazione totale. Privi per legge di cittadinanza, i Rohingya non vengono riconosciuti parte delle 135 etnie che compongono la società birmana; per di più subiscono periodicamente atti di violenza che portano a morti, case bruciate, quartieri devastati. Una parte importante della retorica contro i Rohingya deriva quindi da Wiratu e dalla sua organizzazione, il 969, impegnata nella fidelizzazione e nella diffusione di odio razziale (crimine per il quale il leader buddista ha già scontato otto anni di carcere). Intrecciando un’intervista frontale a Wiratu con testimonianze di suoi collaboratori, giornalisti investigativi ed esponenti di organizzazioni umanitarie, Schroeder ricostruisce il quadro della situazione realizzando un documentario estremamente classico, che evita sperimentazioni linguistiche o soluzioni particolarmente ricercate per concentrarsi sulla dimensione morale degli eventi e sulla portata infettiva che l’ideologia dell’odio conferma di avere in ogni contesto, compreso quello inusuale che vede monaci buddisti predicare la difesa della razza con ogni mezzo.
Poco attento agli interessi geopolitici che alimentano sotterranei la delicata situazione birmana, Schroeder preferisce focalizzare il suo sguardo sulla fabbrica di odio edificata da Wiratu e dai suoi fedelissimi, parti di una complessa struttura ideologica dotata di temi chiave, retoriche e strumenti mediatici studiati al millimetro. Il male esiste, ci fa intendere Schroeder, ma non come dimensione assoluta nel cuore degli uomini; piuttosto come fiele, umore pervasivo che cola goccia a goccia nelle menti e viene alimentato da un uso strategico di parole e immagini. Wiratu infatti non si limita a fare comizi manipolando la realtà e gli insegnamenti del Buddha per giustificare le sue azioni ma produce anche materiale indottrinante, libri e film che diffondono il verbo o sfruttano le logiche dell’intrattenimento per rimettere in scena episodi di violenza musulmana adeguatamente reinterpretati. In quest’ottica i musulmani tutti e in particolare i Rohingya vengono paragonati a un’infestazione di pescigatto, creature fameliche e senza scrupoli che si cibano della loro stessa specie e fornicano senza controllo, con l’intento preciso di accaparrarsi le donne locali per procreare in modo intensivo. È particolarmente inquietante notare come quest’esercizio retorico si nutra degli stessi temi e delle stesse accuse adoperate da altri movimenti nazionalisti e xenofobi a noi ben più vicini, come se appunto l’odio e la demonizzazione dell’altro siano strumenti universali di consenso politico, particolarmente efficaci in una società come la nostra ossessionata dalla (totalmente immaginata) riconquista orizzontale del potere da parte della gente comune e delle comunità a discapito delle élite e dei poteri forti.