Joe, manager di una libreria di New York, si innamora di una giovane donna di nome Beck, una sua cliente. Il suo amore, però, si rivela una vera e propria ossessione.
Io You Noi Tutti
La premessa è languida – perché quello del libraio Joe che nella prima stagione si innamora della bella cliente Beck, che si scopre essere un’aspirante scrittrice piena di tormenti, sembra davvero l’avvio di una rom-com con tutti i crismi -, ma lo sviluppo è quello di un thriller condito di violenza e omicidio. Il mix di generi spiazza da subito, perché, anche se sottende una rivisitazione e una critica interna agli stereotipi proposti (quello romantico, innanzi tutto), induce lo spettatore a posizionarsi rispetto al protagonista. Al di là delle precisazioni di Penn Badgley, l’attore che interpreta Joe, che si affanna a ricordare alle fan che il personaggio da lui interpretato è un assassino, non si può non simpatizzare con il protagonista, pur riconoscendone la morbosità. La narrazione, a parte una variazione improvvisa che ribalta la prospettiva, è improntata sul suo punto di vista e chi narra ha sempre una posizione di vantaggio: non si impiglia in un contraddittorio e ha modo di giustificare ciò che pensa e come agisce (è una questione che affronta anche Lars von Trier). Inoltre, nello specifico, lo spettatore sa che se i crimini di Joe venissero scoperti dovrebbe dire addio alla tensione e al racconto.
In realtà You è scorretta non tanto perché aderisce alla visione del protagonista, ma soprattutto perché non si preoccupa di contenere la fascinazione che costui esercita sullo spettatore: non solo le sue vittime sono quasi sempre odiose, ma il Nostro si occupa amorevolmente nella prima stagione di un ragazzino problematico, nella seconda di un’adolescente brillante e in cerca di attenzione, nella terza di suo figlio neonato (le radici di questa tendenza protettiva sono indagate proprio nella terza stagione, la più sbilanciata sulla ricerca nel passato di chiavi di lettura del comportamento del protagonista). E lo è, in secondo luogo, perché onestissima e senza filtri nel centrare il punto (quindi senza parentesi didascaliche che orientino chi guarda): che i manipolatori come Joe portano l’interlocutore dalla loro parte mettendo in evidenza, della realtà sulla quale agiscono, solo gli aspetti che tornano utili al loro ragionamento e che ne giustificherebbero la condotta. Se siamo dalla parte di Joe, insomma, è perché lui, anche nel mettersi in scena, è un esecrabile genio del Male e di questa influenza mistificatrice siamo vittime al pari di Beck, la sua prima ossessione.
E questa tendenza è mantenuta anche nelle due stagioni successive: è molto più interessante destabilizzare il pubblico che indottrinarlo (l’elenco delle serie che abdicano alle premesse e che nelle stagioni successive cadono nella tentazione del pistolotto sono innumeri).
Un’altra ragione per la quale si guarda a Joe con simpatia è che la sua morbosità è un segnale fortemente attuale che è impossibile non riconoscere come prossimo a sé. Il tema di You, infatti, non è tanto l’ossessione di un uomo per una donna (che cambia stagione dopo stagione), quanto quello della tecnologia e delle possibilità che questa oggi offre di coltivare al meglio queste ossessioni, per portarle a livelli di esasperazione prima impossibili. Nell’epoca di internet e dei social, di una vita esteriore alla portata di tutti, il cosiddetto lurkare è già una forma normale di stalking, se Joe è un maniaco pericoloso, è vero anche che una certa maniacalità che riguarda l’altro è diventata normale. Nell’epoca di internet non ci si innamora solo di un’immagine, non la si romanticizza soltanto: la si segue, la si controlla, si cerca di imparare come la pensa chi ne è portatore, per poterlo prevenire, circuire, sedurre. You, insomma, parla della distorsione tutta contemporanea che hanno subito i rapporti sociali e di come la rete abbia fornito (attenzione, paradosso) mezzi enormi alle umane piccolezze: così l’uso dei device accentua le paranoie; o le conferma, alimentandone di nuove (se sei paranoico non dovresti usare internet, ma proprio perché sei paranoico tendi a usarlo). Perché è la paranoia il leitmotiv delle relazioni odierne: notifiche di mail e social, foto condivise, gruppi di whatsapp e una verbalità tutta da decifrare – perché fatta di formule rapide ed emoji – costituiscono un campo di continui fraintendimenti, dubbi irrazionali e film personalissimi.
Non è un caso che la verità su Joe (prima stagione) sia contenuta in una scatola: lì ci sono oggetti, cose materiali, prove tangibili della sua follia; non c’è nulla da interpretare, tutto si comprende all’istante e alla perfezione. La materia grezza, fuori dal vacuo discorso virtuale, risveglia Beck dal sonno della ragione e le mostra Joe per quello che è.
Allora You tratta, stilizzando il racconto della prima stagione al massimo, della relazione tra una ragazza e un follower impazzito che non vuole davvero comprendere ciò che sta guardando, perché è sempre pronto a idealizzare quell’immagine e a condurla su un terreno confortevole che sia valido e soddisfacente dal suo punto di vista. Cosa molto più comune di quanto si pensi. Freud diceva che l’idealizzazione falsa il giudizio e rende l’Io sempre meno esigente e l’oggetto dell’idealizzazione sempre più prezioso, fino a quando l’oggetto non divora l’Io. Se l’Io viene divorato cosa rimane? Rimane ciò che si idealizza. Te. You.
E se la tecnologia e internet oggi permettono tutto (dare voce e creatività all’ossessione, scatenare ansia di controllo, alimentare fissazioni), Joe dà piena voce a queste pulsioni e adegua la realtà circostante al proprio ideale, eliminando sistematicamente tutti quegli ostacoli che ne impedirebbero la realizzazione. Non è un caso che, a un certo punto, la serie ribalti i punti di vista e ci faccia partecipi anche di quello di lei, una persona non meno cosciente delle possibilità che la tecnologia offre per dare sfogo alle proprie pulsioni, anche quelle più meschine.
E questo ribaltamento è alla base delle due stagioni successive che mostrano un quadro di follia lucida e alienazione controllata come ampiamente condiviso dal mondo relazionale che ruota attorno a Joe.
Joe e Beck – come, nella seconda e terza stagione, Joe e Love (nome che designa una persona come proiezione del proprio desiderio) – non si conoscono davvero e – come accade oggi, grazie alle amicizie internettare o ai legami di più forte dipendenza che non coinvolgono necessariamente la corporeità – il loro legame si fonda su una reciproca incomprensione: l’uno appiccica all’altra un’immagine costruita ad hoc, in base alle proprie esigenze (per Joe lei è la creatura da salvare, per Beck e Love lui è il ragazzo innamorato che offre quello che gli altri non hanno mai dato loro).
E tutte quelle che sono state viste come esagerazioni o derive inverosimili sono soltanto la versione gialla e thriller, dunque romanzata e spettacolarizzata, di una pratica quotidiana, quella di un voyeurismo elevato a consuetudine socialmente accettata, uno spiare le esistenze altrui per costruirsi una fantasia mentale con la quale gingillarsi, un seguire l’altro che può diventare facilmente patologico (It Follows parlava della stessa cosa usando il codice horror: «L’occhio che ti segue è indefinito, è un follower che non conosci, è un superego 2.0 che è pronto a giudicare», Giulio Sangiorgio su FilmTv). È tremendamente facile oggi penetrare nell’intimità di qualcuno, soprattutto se questo qualcuno è un po’ sprovveduto: di questo parla You.
E lo You non si riferisce solo all’obiettivo dell’attenzione del protagonista, con quello You la serie interroga anche chi la guarda: così You sei proprio tu. La serie punta il dito sullo spettatore (hey you), lo avverte: anche tu sei questa cosa qui, sei come Joe, anche tu sei lo stalker, il voyeur civilizzato, you sei tu ogni volta che eserciti questa attività e spii, e guardi, e giudichi, e immagini e completi il quadro a modo tuo.
You dice tutto questo avendo anche chiarissimi alcuni modelli letterari sulla passione come ansia di possesso e controllo (la psicosi di Il collezionista di John Fowles, la devozione morbosa di La prigioniera di Proust, il fanatismo di Misery di Stephen King). E contando su personaggi di segno chiaro, dato non scontato in una serialità che spesso modifica i caratteri a seconda delle esigenze narrative.
Perché questo è uno dei punti di forza della serie: il mutare stagione dopo stagione, modificando ambientazione e situazioni, facendo evolvere la vicenda umana del suo protagonista, ma senza mai stravolgerne il carattere (né far profilare – diocenescampieliberi – una redenzione) e senza snaturare le logiche su cui la narrazione si fonda. L’indagare il passato del personaggio, per esempio, anziché dissipare dubbi, alimenta ipotesi inquietanti: il filo materno, in particolare, comincia, dalla stagione 3, ad apparentarsi alla lontana col Psyco hitchcockiano, adombrando la vaga possibilità (qualora la serie continui lo scopriremo) che la genitrice sia stata una delle vittime di Joe (a Psyco fa anche pensare l’omicidio subitaneo di quella che pensiamo essere la You di stagione, Natalie, che è imprevedibilmente fatta fuori alla fine della prima puntata).
In quest’ultima stagione Joe e Love (una consorte folle di altra follia: se lei uccide d’istinto e senza ragionare, Joe lo fa premeditatamente e credendo sempre di avere un ottimo motivo) cercano di integrarsi in una piccola comunità borghese: che il progetto di vita in comune non abbia più nulla a che fare col sentimento lo dicono subito i fatti e l’entrata in scena di un’analista per una terapia di coppia. Il matrimonio, insomma, viene rappresentato come un credibile espediente per sentirsi e mostrarsi normali, una modalità di vita autoinflitta che non desti sospetti o curiosità: ancora una volta, al di là del discorso patologico e del tono romanzesco del racconto, poste tutte le attualizzazioni del caso (a cominciare proprio dall’incidenza della new technology che ha portato, come già si diceva, a esasperazione certe tendenze paranoiche), quella in cui è reso il coniugio (e il discorso si estende anche a tutte le coppie che orbitano attorno ai protagonisti) è una maniera che non esito a definire realistica e brutalmente critica, una via di mezzo tra il verismo letterario di Richard Yeats (non a caso citato) e il teatro da camera delle coppie bergmaniane. Il finale di stagione, in questo senso, al di là del sangue e dell’ironia da commedia nera, ha il sapore di una verità amarissima: il modo in cui si conclude una relazione è tanto più violento e feroce quanto più ne erano inautentiche le premesse. Se non vi pare una cosa seria…
(dicembre 2019, aggiornato nel marzo 2020)