Drammatico, Musical, Sala

UN’AVVENTURA

TRAMA

Sulle note delle intramontabili canzoni scritte da Lucio Battisti e Mogol, Matteo e Francesca scoprono l’amore, si perdono, si ritrovano, si rincorrono, ognuno inseguendo il proprio sogno: lei vuole essere una donna libera, lui vuole diventare un musicista.

RECENSIONI

DUE MONDI

In un’epoca in cui il cinema italiano tenta strade inedite, azzarda produzioni atipiche, ci prova, insomma, un musical concepito sulle canzoni di Lucio Battisti sembra tutt’altro che un’idea balzana. Il primo Lucio Battisti sta all’Italia come i Beatles al mondo, è un patrimonio culturale condiviso che non necessita di commenti, didascalie o richiami: è l’unico territorio definito della musica d’autore nostrana, con caratteristiche proprie e riconoscibili, a essere transgenerazionale e universalmente conosciuto. Il punto di partenza, insomma, è solido. Certo, creare un musical completamente originale è cosa ben diversa dal concepirne uno a forma e misura di un repertorio già esistente e non modificabile. Soprattutto se, come scopriamo, sul repertorio di Battisti si ha una concessione limitatissima (tutto materiale ante-1971, che significa quasi niente).
Ma, al di là dei limiti di utilizzo del materiale, ciò che pesa su Un’avventura è il non volersi liberare, neanche nella frequentazione del genere prescelto, della rigidità stereotipica e drammaturgica di tanto cinema italiano di risulta. Il musical, insomma, non diventa l’occasione per esprimersi con quella libertà di forme a esso connaturata, fregandosene, una volta tanto, dei codici di plausibilità cinematografica nostrani, trasgredendoli o prescindendone. No. Qui si mette in scena una storia d’amore in forma di sceneggiato televisivo, succube del consueto verbo pseudorealista, interrompendola di tanto in tanto con un siparietto cantato che, pur rispondendo di volta in volta a logiche diverse, si guarda bene dall’affrancarsi dal suo ruolo di rigida parentesi.

Eppure l’universo poetico battistiano (ma sarebbe il caso di dire mogoliano - Rapetti è anche consulente artistico dell’operazione -), nei suoi motivi fondamentali c’è. Al di là dei limitati brani proposti, traspare dalle dinamiche narrative e dai temi toccati, primo fra tutti quell’oscillare tormentato (e molto anni 70, epoca nella quale si ambienta la storia) tra i due mondi più volte evocati da Mogol-Battisti: quello hippy dell’amore libero («una terra senza serra/ dove i frutti son di tutti») e quello dell’«amor di borghesia» che t’incatena all’altro (e alla sua gelosia - «mio per sempre» -), due dimensioni lontane e incomunicabili in virtù e a cagione delle quali da un lato c’è chi afferma «voglio te una vita» e dall’altra si risponde con la considerazione che «sarei una cosa tua» (Due mondi, 1974). Tormento tutto contenuto, in forma sfumatissima, nel testo della canzone eponima:
«Non sarà
Un'avventura
Non può essere soltanto una primavera
Questo amore
Non è una stella
Che al mattino se ne va».
Si opta per la litote: invece di affermare che sarà un amore eterno si dice quello che non sarà, suggerendo, tra le righe, che potrebbe trattarsi proprio di quello: un’avventura, un fuoco che col vento può morire. E infatti, dopo aver sperimentato l’”inferno rosa” del matrimonio, in bilico tra monogamia e tentazioni adulterine («mi offri la fedeltà su un piatto decorato di mille attenzioni/ come dire "hai comprato e ora godi le tue prigioni"», Questo inferno rosa, 1973) la relazione dei due protagonisti, minata dai reciproci tradimenti («Ti stai sbagliando chi hai visto non è/ Non è Francesca/ Lei è sempre a casa che aspetta me/ Non è Francesca/ Se c'era un uomo poi, no non può essere lei»), si interrompe, con tanto di tragico incidente a seguito di folle corsa in auto «a fari spenti nella notte» (Emozioni, 1971). E via cantando o alludendo. Anche l’uso del mondo della pubblicità (irriso in Ma è un canto brasileiro, 1973) come sfondo delle vicende della parte romana del film, accenna a certe costanti poetiche del primo canzoniere battistiano: quella ecologista e anti-consumista, da un lato, e quella intima della rinuncia compromissoria alle proprie aspirazioni, dall’altro («Per una lira/ Io vendo tutti i sogni miei», Per una lira, 1969). Mentre si cita il real-maschilismo mogoliano solo per canzonarlo teneramente. A questo proposito se il manipolare strategicamente il testo di Dieci Ragazze alternando, nel cantato, anche dieci ragazzi per lei, è una concessione ai tempi incongrua (perché non di ragioneria sessuale si parlava: nell’originale il protagonista si bullava con l’unica ragazza alla quale teneva, e da cui era stato lasciato - «però io muoio per te» -), fa d’uopo ricordare, in tempi in cui si innescano scandali a orologeria per la presunta misoginia dei rapper, che c'è stata un'epoca in cui Mogol metteva in bocca a Battisti parole come «L'offerta del tuo seno/ orgoglio dell'animale sano» o inni al sessismo arcaico come quello di La canzone della terra, senza che si muovesse foglia.

Tornando al film - che chiama in causa un coreografo valido come Luca Tommassini solo per sacrificarne il talento in quadri asfittici e senza un briciolo di inventiva -  è un peccato che la considerazione del videoclip in Italia sia minima rispetto a quella di altri Paesi (primo fra tutti la vicinissima Francia): non le si riconosce valore, autonomia, rispetto (e denaro). Perché un’operazione del genere ci flirta solo all’inizio, ma al di là del registro palese, un film del genere, che sarebbe opportuno se ne nutrisse, pare del tutto indifferente nei confronti delle sinergie che dovrebbero esistere tra una narrazione per immagini e una partitura musicale. Si prenda Il vento: vuole essere un momento visionario, ma invece di costituire un salutare (e a quel punto davvero opportuno) scatto in avanti del film si rivela l’ennesimo segmento cantato di deprimente piattezza ideativa. Peccato.