TRAMA
La banda di Harry Rawlins rimane coinvolta in una sparatoria mortale al termine di una rapina. Le relative vedove dovranno far fronte (comune) alle minacce del rapinato, improvvisandosi rapinatrici a loro volta.
RECENSIONI
La tradi(/u)zione – va detto, non solo italiana: la palma spetta probabilmente ai tedeschi – di ribattezzare con disinvoltura traditrice quando non con pittoresca e spesso irriverente arbitrarietà i film stranieri, ci regala con Widows – Eredità criminale il caso più unico che raro di un sottotitolo che non fraintende tragicamente l’opera ma, anzi, ne coglie perfettamente l’essenza (allo spettatore d’oltralpe è toccato l’aracnofilo “Vedove letali”), ancorché declinato poco coraggiosamente al singolare. Le eredità del film – inesorabilmente tràdite, azzardatamente tradìte – sono infatti molteplici ed effettivamente per lo più criminali. Criminali sono, su un piano più immediato, sia il debito che la soluzione lasciati in eredità da Harry Rawlins e criminale è il ricordo indelebile del lutto inaccettabile che mette in moto indirettamente gli eventi. Criminali le ingerenze e l’autorità patriarcale annosa e sottilmente imperitura (Harry non muore davvero) che gli uomini esercitano sulle donne, ad ogni livello: intellettuale (Veronica è lasciata all’oscuro di tutto da Harry), fisico (Alice viene abusata dal marito, costretta a prostituirsi dalla madre che alla morte di lui riacquista la patria potestà, infine posseduta esclusivamente da un cliente che pretende di determinare in tutto e per tutto la sua vita), economico (Linda non può disporre delle entrate del suo negozio), politico (Belle lavora per una parrucchiera sfruttata da Mulligan per la sua campagna elettorale e vessata fuorionda). Criminale è il nepotismo che favorisce l’ereditarietà delle cariche e criminale è il retaggio centenario dell’intervento di quelle ecclesiastiche nella designazione di quelle secolari. Criminale è la città di Chicago, specchio di una madre America dove il determinismo non può essere disatteso, dove “non importa quanto cambi, non fa alcuna differenza”, dove la Pantera Nera Albert Woodfox può rimanere 44 anni in ingiusto isolamento e dove un politico che preferirebbe rinunciare al nome e all’incarico di suo padre per vivere finalmente libero non può che soccombere alla logica del denaro e delle false promesse, ritrovandosi eletto solo per ragioni di parentela (è l’immolazione del padre a guadagnargli i voti determinanti), preferito ma in realtà equivalente a un re della mala falsamente redento e inevitabilmente ancora legato al suo patri-monio criminale (materiale e spirituale).
Ma l’eredità più criminale di tutte è senza dubbio quella di Steve McQueen. Difficile avvicinarsi a questo film ignorando la firma importante che vi è posta in calce (il regista è un celebrato videoartista con installazioni nelle maggiori gallerie del mondo e, di riflesso, con una filmografia che annovera opere più che prodotti); pressoché impossibile (e ancora più doloroso) farlo, una volta che la pochezza riscontrabile su ogni suo fronte abbia precluso qualsiasi prospettiva analitica sensata e interessante, al di fuori di quella più banalmente autoriale. Il testo non avvince: segue troppe tensioni senza dare il giusto sfogo ad alcuna, dà l’impressione di essere sempre artefatto ma mai fatto ad arte e si oppone a ritmi e tempi dell’heist movie classico senza offrire apprezzabili alternative. Si pensi ad esempio al denouement del marito redivivo, che, nella serie su cui il film si basa, era il cliffhanger esplosivo tra la prima e la seconda stagione e che qui denouement non è affatto, piovendo a metà film con scarsa costruzione e scarsissime ripercussioni. Il sottotesto non convince: abbozza – come s’è visto – riflessioni potenzialmente fertili, ma non prende mai davvero posizione, rimane confuso e accessorio – quando non pretestuoso –, soffocato dall’urgenza di trascinare avanti (il feretro di) una trama sempre arrancante.
Veronica porta con sé negli epigrafici titoli di coda l’indecisione irrisolta tra la sottoscrizione dell’eredità (“dobbiamo sembrare e muoverci come una squadra di uomini”) e il suo rifiuto (“la cosa migliore per noi è essere quello che siamo”), divisa tra il machismo insensibile con cui porta a termine l’impresa e la riapertura al sentimento dell’ultima inquadratura – cui però manca il naturale e rassicurante controcampo. Allo stesso modo il regista non riesce a scegliere se (o quanto) farsi erede del Widows anni ’80 e della sua natura televisiva di solido intrattenimento popolare (c’è pure un cameo – guadagniniano? – della protagonista originaria, nel ruolo emblematico della madre della vedova più subdolamente criminale, Amanda), oppure se affermare imperterrito il proprio retaggio artistico, incapace stavolta di indovinare l’equilibrio tra le due tensioni che caratterizzava invece provvidenzialmente 12 anni schiavo. Il risultato è un film di tante metà vedove che non hanno la forza di mettersi insieme per formare un intero armonico e fare (il) colpo. Steve McQueen è un virtuoso del momento cristallizzato e (evidentemente) non delle svolte ingegnosamente concatenate: ben lo si evince dal suo strumento poetico prediletto, il piano sequenza, l’istante elevato a unità scenica, vero laboratorio dove scolpire in tempo reale i personaggi sulla carne dei propri attori, voci dolorosamente soliste che non cedono mai davvero la scena a pagine corali. In Widows McQueen fa l’epigono di sé stesso e sporadicamente i suoi sforzi si traducono in momenti di grazia, frammenti sospesi, istantanee oculate e vibranti (complici i bravi attori), ma la sensazione è sempre quella di un film (al più) disperatamente alla maniera di Steve McQueen, a partire dai piani sequenza: quello dell’esecuzione dei rapper è di rara gratuità, mentre il (poco elegante) camera-car che segue Mulligan dal luogo del comizio a casa, la sua funzione di tradurre il soffocamento e la refrattarietà del personaggio la fa (si inquadra solo il parabrezza imperscrutabile), ma il carrello laterale di Shame toccava altre corde e altre vette (o profondità).
Della marcia funebre d’accompagnamento si incarica una svogliatissima partitura di Hans Zimmer, altro illustre erede criminale di una gloria che non merita (più?): un algoritmo che ricombinasse vecchi pezzi suoi con plagi più o meno taciti di pagine altrui sortirebbe probabilmente il medesimo effetto e con maggiore ispirazione. Ma sono del resto le singhiozzanti lamentazioni (e giammai gli elogi) che si innalzano dal nutrito corteo di affezionati il vero commento sonoro del film. Vedovi traditi affranti dal lutto più inconsolabile, si piange il fantasma di McQueen, augurandosi di trovarlo redivivo molto prima di quanto ci si possa aspettare (certo non al denouement della sua carriera) e di vederlo esercitare il suo diritto di successione al di là del piano sequenza e delle progressioni stantie di Zimmer, finalmente erede di successo dell’affamato e mai pudico McQueen di ormai quasi dodici anni fa.