TRAMA
1996: lo storico negazionista David Irving afferma che l’Olocausto non è mai accaduto e accusa di diffamazione l’americana Deborah Lipstadt, che deve difendersi in tribunale e, con i suoi avvocati, punta a dimostrare che Irving ha mistificato i fatti per favorire la figura di Hitler.
RECENSIONI
Dopo The Reader, il drammaturgo David Hare presta la penna ad un altro dramma processuale con olocausto di mezzo: prende le mosse dalle memorie della stessa Deborah Lipstadt, dalle trascrizioni ufficiali del processo e dalle dichiarazioni di David Irving e, infine, della sua prosa distaccata, cerebrale e complessa non resta traccia. Senz’altro il britannico Mick Jackson, che torna al cinema dopo quattordici anni e in madrepatria (piccolo schermo escluso) dopo vent’otto, instrada lo script in territori più stereotipati e schematici (genere: fatto vero, processuale, vittoria dei buoni) ma non è la prima volta che Hare preferisce giocarsi il talento, piuttosto che in strutture astruse ed autorali, in veicoli di dialettica pura, riversandolo nei dialoghi, nei contorni dei personaggi, nei passaggi con outing (molto bello quello donato a Tom Wilkinson e Rachel Weisz nella camera d’albergo), nel potere della parola che, basandosi sui fatti, smentisce e fa incartare i palloni gonfiati della menzogna. A Jackson, poi, quel che è di Jackson: fatta la tara di qualche sottolineatura di troppo (vedi le fanfare finali), è abile nel dare risalto alle battute e ai caratteri anche minori, a non far sentire la claustrofobia delle quattro pareti dell’aula di tribunale e, soprattutto, a filmare ad Auschwitz con pudore e rispetto, trovando un passo di commozione.