Drammatico, Recensione

UNA PURA FORMALITÀ

NazioneItalia
Anno Produzione1994
Durata108’

TRAMA

Il noto scrittore Honoff, rinvenuto sconvolto in una notte di pioggia, è sottoposto dal Commissario, suo fan, ad un interrogatorio in merito ad un omicidio avvenuto nei pressi della sua abitazione.

RECENSIONI

Una pellicola all’insegna dei liquidi (la pioggia, il sangue, il vino, il latte e gli strumenti thailandesi ad acqua di Ennio Morricone) che mantengono la visione in “sospensione” fra sogno e realtà, accompagnandola nella discesa verso un incubo kafkiano (l’Autorità opprimente) o dostoevskiano (la sepoltura nei meandri della mente), dove non ci sono appigli, non si distingue il carnefice dalla vittima (anche il Commissario potrebbe essere entrambi, in quanto emblema della Legalità), non si conosce la verità né si ha speranza di trovarla (lo scrittore non ricorda nulla). Lontano anni luce dalla “scuola italiana”, dalle aspettative che lo vorrebbero per sempre ancorato alle liriche siciliane metacinematografiche di Nuovo Cinema Paradiso, Giuseppe Tornatore, dopo il poco riuscito e altrettanto “onirico” Stanno Tutti Bene, azzarda ancora ma reitera i temi della memoria (la canzone di chiusura cantata da Depardieu: “Ricordare è come morire”) e del rapporto con la fama, senza complessi d’inferiorità nei confronti della spettacolarità, mezzo e non fine del suo cinema. Una dichiarazione di intenti insita anche nel racconto, che inventa il personaggio del professore, in grado di trasformare la “matematica” in geometria filosofale, astratta e concreta allo stesso tempo: se la matematica è la “padronanza tecnica”, Tornatore sfoggia i movimenti della macchina da presa nella soggettiva iniziale nel bosco, elabora il montaggio nel tentativo di replicare i frammenti di memoria, si concede vezzi come la ripresa dal water e da sotto la macchina da scrivere. Anche la scrittura si esprime attraverso regole grammaticali ferree ma fuoriesce sublime/sublimata, come nello splendido racconto del barbone Robén. Il film è un teso e cupo rebus della mente dove, non a caso, figura Roman Polanski: è sua la poetica decadente e pessimista, girata con pochi ambienti e personaggi, in una situazione da Guardato a Vista. Difficile da gestire il finale surreale, in bilico fra effettismo da colpo di scena e riflessione metafisica ma Tornatore ne esce indenne, perché preferisce stare con i piedi per terra.