TRAMA
Athur Curry è Aquaman, figlio del guardiano di un faro e della regina di Atlantide. È tempo per lui di seguire il suo destino, abbandonare i boccali di birra e diventare Re dei Sette Mari. La strada per il trono sarà però lunga e piena di insidie.
RECENSIONI
Ormai la guerra al box-office si combatte a suon di universi cinematici condivisi. Contro lo strapotere della Marvel (Disney) ci prova, finora con minor fortuna, la DC Comics (Warner Bros). Questa volta tocca ad Aquaman, il possente mezzo Dio figlio dell’uomo del faro e della regina di Atlantide. In realtà di condiviso non c’è praticamente nulla, semplicemente la vicenda si svolge dopo il precedente Justice League e l’assenza di sottotrame e intrecci, comprensibili solo alla fan base, giova sicuramente alla fruibilità del risultato. A tentare il lancio da solista di uno dei supereroi più sottovalutati dell’universo DC Comics viene chiamato James Wan, esperto in saghe di successo da lui create (Saw, Insidious, The Conjuring) o felicemente proseguite (Fast & Furious 7). Il maggior pregio di Wan è quello di essere un ottimo rimasticatore e assemblatore di generi capace, dote non così comune e scontata, di dare al pubblico ciò che cerca. Conosce i meccanismi dello spettacolo, sa come creare coinvolgimento, non inventa nulla ma ricicla con indubbia efficacia immaginari noti. Si mescolano e contaminano Pinocchio, All’inseguimento della Pietra Verde, Lovecraft, Il Signore degli Anelli, Avatar, Verne, La spada nella roccia e chissà cos’altro. L’idea più forte è quella di non sembrare affatto un film di supereroi, ma un giocattolone disimpegnato. Mancano quella solennità, quel prendersi sul serio o fingere di non farlo (l’ironia tagliente), quella cupezza, quell’ambizione autoriale che appesantiscono i super problemi di chi ha la fortuna e l’onere di avere poteri speciali. Non mancano l’enfasi e i ralenti, marchio di fabbrica di Zack Snyder, ma il regista che ha contribuito a creare l’universo cinematico DC Comics, dirigendo tre film su sei della serie, resta solo in veste di produttore esecutivo e il cambio di registro è evidente. Se non fosse per i prodigi della tecnologia che consentono l’impensabile (bellissimi alcuni effetti, come i movimenti dei capelli e la sospensione dei personaggi nell’acqua) e per il budget faraonico che si vede tutto, Aquaman potrebbe essere un filmone di avventura d’altri tempi, basico e scacciapensieri.
A livello di temi veicolati siamo sempre dalle parti de Il Re Leone, per cui puoi bighellonare in giro finché vuoi ma se nasci Re prima o poi sei destinato a diventarlo, e nonmancano gli inevitabili conflitti familiari, i giochi di potere e le battaglie, ma si respira un’aria scanzonata in cui ciò che conta sono l’azione e lo sfavillio visivo. Per una volta ciò che ci sta dietro è consapevolmente elementare, non inutilmente complicato, dando la possibilità allo spettatore di lasciarsi andare a uno stupore infantile che è piacevole riscoprire. In tal senso alcuni momenti regalano una grande suggestione visiva, dai rocamboleschi inseguimenti in un’assolata Sicilia da cartolina, alla fuga dai Trech nelle profondità marine a stretto confine con l’horror. La potenza dell’impianto visivo riesce quindi a supplire alle ovvietà di scrittura. Certo, il protagonista è più compagno di bevute che eroe tradizionale, e un minimo di approfondimento in più lo avrebbe reso non solo logo tutto muscoli del film ma personaggio con qualcosa da dire; anche la sua caratterizzazione, però, finisce per adattarsi al taglio ludico del film. Partecipe il cast in cui si distinguono la prestanza fisica di Jason Momoa (il The Rock delle nuove generazioni), la sua buona alchimia con Amber Heard (non solo bella statuina ma determinante in più di una svolta narrativa), la duttilità di Willem Dafoe e Patrick Wilson (attore feticcio di Wan) e lo sprezzo del ridicolo della sempre dedita alla causa Nicole Kidman che dimostra di credere al personaggio più di quello che facciamo noi. Di grande aiuto i kitschissimi costumi, le strabilianti scenografie, per lo più digitali, i contrasti cromatici accentuati e le sonorità, non solo tonitruanti ma anche elettroniche, di Rupert Gregson-Williams. Aggettivi come ipertrofico, chiassoso, debordante e titanico non stonano, ma non è quello che in fondo cerchiamo andando a vedere un film così?