TRAMA
Halla sembra una donna come le altre, ma dietro la routine di ogni giorno nasconde una vita segreta: compie spericolate azioni di sabotaggio contro le multinazionali che stanno devastando la sua terra, la splendida Islanda. Quando però una sua vecchia richiesta d’adozione va a buon fine e una bambina si affaccia a sorpresa nella sua vita, Halla dovrà affrontare la sua sfida più grande… (dal pressbook).
RECENSIONI
Non è una terrorista, Halla. È una maestra di canto, 49 anni, con i poster di Gandhi e Mandela, nutrita di un anticapitalismo pop che non sa spiegare: la sua rivendicazione è un volantino balbettante, un luogo comune. Non è una criminale: l’azione di sabotaggio si fa spesso maldestra, qualcosa si inceppa, una goccia di Dna la incastra. Eppure la donna va alla guerra (titolo originale: Woman at War) mascherata da supereroe ambientalista contro il contemporaneo, ed è vicina la riscrittura del marvel movie fra travestimenti, cambi d’abito, stratagemmi che la qualificano perfino come Robin Hood, traccia evidente nella sequenza in cui scaglia una freccia contro il drone e l’analogico batte il digitale. Non è un caso che Benedikt Erlingsson insceni la figura di una donna adulta, non una giovane ribelle, ed ecco una chiave del film: Halla non ha passato esplicito, è una single che aspetta un’adozione, equilibrata e stimata, lontana dall’enunciazione di una posizione politica radicale. Semplicemente: esegue un sabotaggio. Il suo è un atto paradossale contro l’avanzare delle aziende, talmente fuori tempo e luogo che scontenta tutti, dal primo ministro al tassista. Il sistema non lo prevede e quindi non lo capisce. Perché lo fa? «Sono criminali» dice chiaro e tondo, ma non va oltre, perché il motivo sta già nell’affondare il volto nella terra, quel suolo islandese a cui affida sé e i suoi desideri (come una fotografia), che appaga un bisogno materico e tattile e dunque l’industria non può cancellare.
Erlingsson addensa in un unico personaggio la narrazione corale del precedente Storie di cavalli e di uomini, ma continua lo stesso discorso: se lì gli equini venivano prima degli umani, nel titolo e nella politica del racconto (sì, politica), qui è ancora la natura a sopravanzare la comunità perché messa in minoranza ha deciso di reagire. Ma questa è anche l’unica posizione implicita nel racconto, che respinge ogni didascalia e avanza a passo surreale, in odore di Roy Andersson, come nel dispositivo - geniale - della colonna sonora vivente che prima sembra “extradiegetica” e poi inizia a interagire apertamente con la protagonista e la storia (dice il regista: «I greci credevano che le persone creative fossero accompagnate da un daimon che ispirava delle buone idee e dava loro potere e coraggio: questo è il compito dei musicisti»). Si forma allora l’acuto ritratto di una figura grottesca, controcorrente, resistente, una magnifica Halldóra Geirharðsdóttir già interprete di Beckett, a proposito di assurdo: essa fa una guerra impari come il Laurent di Brizé, rifiuta la tecnologia come il Daniel Blake di Loach, per questo nella scena più eversiva beffa i droni volanti e si nasconde nel ventre di una pecora. La natura, difesa, la ricambia.
Al contrario l’organizzazione degli uomini è sempre più insensata e aberrante, lo sa bene Erlingsson che era attore ne Il grande capo di Von Trier, sa che la riduzione in ufficio è irrazionale quanto la consunzione della terra. E, come in Kaurismaki, il grottesco è il registro che annulla le distanze e mette allo specchio le fazioni: se è lecito costruire fabbriche che divorano l’ambiente, allora perché non lo è tagliare i fili? Tuttavia la donna elettrica sembra destinata alla sconfitta, incompresa e sola, tanto che riparte dall’unica alleata possibile: se stessa. Una sorella gemella. Halla si sdoppia in Asa e produce uno scambio gemellare da thriller hollywoodiano. Da qui gli appoggi si moltiplicano. Ecologia radicale? Non proprio. Woman at War è piuttosto film che propone un’ideologia per metterla in dubbio, lasciando credere che l’utopia della protagonista sia l’ennesimo percorso di un loser, troppo fuori da tutto per farcela, salvo poi mostrare che Halla aveva ragione, proprio nell’ultima immagine, un’inondazione simbolica: in tal senso è un vero film antagonista.
