TRAMA
A poche ore dal D-Day, un battaglione americano di paracadutisti viene lanciato su un paesino della Francia occupata dai nazisti per una missione cruciale: far saltare una torre-radio, posizionata sopra una chiesa, per facilitare l’invasione alle truppe di terra. Sterminati dalla contraerea tedesca e dalla superiorità numerica delle forze naziste, i soldati americani rimangono in poche unità e trovano rifugio nella casa di una ragazza del posto, che vive sola col fratellino. Decisi a portare comunque a termine la missione, il soldato Boyce e i suoi compagni si fanno strada con uno stratagemma all’interno della torre, ma qui scoprono un vero e proprio laboratorio degli orrori e si ritrovano a combattere un nemico mostruoso, apparentemente invincibile.
RECENSIONI
Nazisti e zombie. Non fosse per la sua castità, Overlord potrebbe appuntarsi al petto la medaglia di film d’exploitation quintessenziale ed essere contento, tanto più se si considera l’impeccabilità del suo impianto squisitamente d’intrattenimento. L’egregio J.J. Abrams infatti coordina come al solito una messinscena fieramente b-movie e tuttavia tale da fare invidia – forse non nei nomi ma certo nei risultati sì – a produzioni ben più impegnate: dalla scrittura lucida e metronomica di Billy Ray (Hunger Games) e Mark L. Smith (Revenant), alla regia ordinata ma non senza guizzi di Julius Avery, qui alla seconda prova dietro alla macchina da presa (ed era molto facile scadere nel kitsch: si veda la seconda prova di un mostro sacro come Michael Mann, di simile ambientazione e non ottima riuscita), dalla fotografia crepuscolare di Laurie Rose (Peaky Blinders) e Fabian Wagner (le migliori battaglie di Game of Thrones), a un corredo di ottimi caratteristi promossi a star (i John Wayne tenenti colonnelli della situazione saranno rimasti appesi a qualche albero), da set sobri ma accurati, a effetti sonori e visivi impressionanti il giusto. Ma il film non si accontenta di portare diligentemente a termine la sua missione di spensierato dissetamento di gole a secco di gore, condito dal classico sberleffo pregevolmente non troppo patriottico al grottesco totalitarismo che genera mostri: come il soldato Boyce, esso infatti non rinuncia a correre incontro persino allo spettatore più pestifero, quello che vuole a tutti i costi che gli sia lanciato qualche contenuto più filtrante con cui palleggiare mentalmente anche uscito dalla sala e a cui magari contro-battere, una volta giunto alla tastiera.
Così, senza dimenticare i suoi natali piccoloblockbuster e smettere l’abito giocherellone (ma non avrebbero guastato ulteriori (s)canzonature à la Inglourious Basterds, onde evitare qualsiasi rischio di prendersi troppo sul serio), qualche riflessione e idea meno scontata del previsto il film si premura di includerla nel prezzo del biglietto, per quanto di grana (o calibro?) giustamente piuttosto grossa, ché siamo pur sempre qui a leccarci le dita unte di pop-corn mentre nazisti crivellati fanno lo stesso con le loro ferite tra improbabili ammassi di carne informe semoventi. È ad esempio peculiare la composizione della squadra, che come da manuale annovera un buon ventaglio di maschere del film di guerra archetipico (il Buono, il Codardo, il Buontempone, l’Intransigente), ma opta poi per una multietnicità sospettosamente anacronistica. Se la promozione della francese Chloe da infermiera improvvisata a commando armata fino ai denti (in barba al cecchino italoamericano) da sola non solleverebbe forse troppe questioni, il soldato Boyce – in quanto afroamericano – non avrebbe sicuramente potuto militare in una truppa bianca prima del 1948. Peccando quindi forse di audacia, non vogliamo ritenere casuale il fatto che la macchina da presa abbandoni ben presto la coralità topica della prima scena per incollarsi proprio su Boyce e non abbandonarlo più, a sua volta promuovendolo protagonista assoluto, il film sposandone totalmente il punto di vista sia a livello di inquadratura che di etica buonista ed emancipatoria. Lascia pochi dubbi a proposito il piano sequenza del lancio dall’aereo in semisoggettiva strettissima (si nota la mano di Abrams, reduce da Mission Impossible: Fallout), alla fine del quale vediamo Boyce recidere i cordoni ombelicali e squarciare il sacco amniotico del suo paracadute per rinascere con la camicia, immune d’ora in poi ad ogni proiettile e invisibile ad ogni sguardo nemico.
Boyce e Chloe, le pedine più piccole e avvilite da soprusi, stringono inevitabilmente un rapporto sempre più forte, platonico e di comune identificazione in una disarmante spersonalizzazione. “Non mi riconosco più” osserveranno entrambi, constatando il loro simile sradicamento – lei privata dei genitori da un ufficiale nazista e lui del suo orticello da qualche omologo americano che l’ha voluto soldato di leva – e facendo valere la propria causa, per quanto essa rimanga sullo sfondo rispetto all’altro più importante filone (minerario/)identitario. Il MacGuffin della vicenda è infatti il potere che i nazisti estraggono dal suolo francese e che solo se raffinato con i corpi dei francesi stessi – iniziativa che questi ultimi non hanno mai avuto – può produrre il sangue dell’eternità che il Reich millenario inietta nei suoi soldati con milionari effetti di (ri)animazione (targati Lucasfilm), facile metafora di radici nazionali piegate all’ideologia nazista.
Queste identità oppresse si cercano e infine trionfalmente si ritrovano nel labirinto sotterraneo e si affermano su un’altra coppia di personaggi, colpevole di averle predate e sfruttate per affermare invece sé stessa: il capitano Wafner a capo dei nazisti e il caporale Ford a capo degli americani. Sono essi due chiare facce parzialmente (tra)sfigurate della stessa medaglia al valore, che palesemente si rispecchiano una nell’altra e si imitano in tutto; del resto l’ultima raccomandazione pronunciata prima della macelleria contraerea dal sergente americano, presto defunto, era stata di “essere tanto marci quanto loro”. Il ferreo e pedissequo caporale si rassegna pertanto nell’incursione finale a un puntuale “dobbiamo giocare sporco tanto quanto loro” e quindi si somministra lui stesso il medesimo siero del suo doppio/nemesi nazista, convenendo però in extremis che (e sacrificandosi affinché) nemmeno i suoi compatrioti possano mettere le mani su un simile potere, parassita di identità nazionali altrui conseguentemente cancellate dalla forza immortale e però impazzita e deformata della propria. Non sarebbe perciò affatto illegittima l’estensione del sottotesto del film dalla parabola di individuazione di minoranze e frange sociali discriminate (la Liberazione che diventa riscatto di donne, neri, immigrati e giovani), alla critica dell’odierna politica estera imperialista statunitense (Overlord è il nome reale dell’operazione di apertura dell’agognato secondo fronte, ma il suo significato è un “padrone” che facilmente può passare all’azione di “impadronirsi”, sia egli Hitler o Eisenhower), equiparata senza troppe sottigliezze a quella nazista, per quanto se ne auspichi un’eroica redenzione. Ma i pop-corn sono finiti ed è dunque il momento di seppellire questi discorsi sotto rassicuranti macerie e godersi senza inutili distrazioni analitiche le ultime esplosioni fracassone.