Biografico, Commedia, Drammatico, Poliziesco, Sala

BLACKKKLANSMAN

TRAMA

Colorado, anni Settanta. Ron Stallworth entra nel Dipartimento di polizia di Colorado Springs dopo la laurea. Fra i suoi primi incarichi c’è quello di infiltrarsi ad un incontro con il leader afroamericano Stokey Carmichael, dove Ron si imbatte in Patrice, convinta sostenitrice del movimento di autoaffermazione black e organizzatrice dell’evento.

RECENSIONI

Nella messe di provocazioni e citazioni, riferimenti alla Storia e alla politica degli Stati Uniti, cambi di registro e iconografia, c'è un elemento di BlacKkKlansman che quasi passa inosservato, al quale si presta poca attenzione: nel momento in cui il giovane Ron Stallworth diventa il primo poliziotto afroamericano di Colorado Springs, egli non è particolarmente interessato al proprio background razziale, lo vive cioè come una caratteristica qualsiasi. Non c'è un sentimento di rivalsa in lui, non si propone per diventare né paladino di una etnia soggiogata né per sabotare dall'interno un sistema a senso unico; il suo stimolo è la necessità di trovare un lavoro, associato alla curiosità per un ruolo che lo ha sempre affascinato. Ogni evento socio-culturale di BlacKkKlansman è una scoperta per lui, e lo spettatore si adatta al suo punto di vista. Spike Lee parte da zero, anzi da sottozero, lasciando intendere che non è necessaria alcuna conoscenza pregressa per capire il suo film. Perché quella conoscenza ce la fornirà lui. È un vecchio Spike Lee che ha capito cosa deve fare il nuovo Spike Lee, per rinverdire i suoi leitmotiv e rendersi nuovamente convincente: rivolgersi non più – o non solo – al suo consueto pubblico di riferimento (che conosce a memoria la sua storia e le sue battaglie), ma rendere cosciente dalle fondamenta un target il più ampio possibile, utilizzando stilemi – estetici e di genere – sfacciatamente mainstream.

Questo non significa che BlacKkKlansman pretenda di avere a che fare con platee politicamente trasparenti (esistono?), quanto semmai politicamente distratte o disinteressate, che paradossalmente potrebbero non conoscere neanche il nome del regista dietro la macchina da presa. Il razzismo repellente e ridicolo del Ku Klux Klan non è un dato di fatto (pur dando per appurata la sua natura), ma ci viene insegnato nelle sequenze con al centro i suoi esponenti; le ragioni identitarie e libertarie delle Pantere Nere non sono scontate, ma prendono forma seguendo il discorso del leader Stoker Carmichael e il racconto di Jerome Turner (interpretato da Harry Belafonte) sul drammatico linciaggio avvenuto nel 1917, che diede il via ad un nuovo periodo di segregazione. Il sermonico Lee spinge sul comico, sull'iperbole e sulla farsa, accettando un gioco pericoloso ma di cui è perfettamente consapevole: parlare di Storia, ma flirtando con le capacità popolari e populiste del cinema, in direzione ostinata e contraria a coloro che instillano odio facendo leva sulla pancia degli interlocutori. Se l'incipit farneticante affidato ad Alec Baldwin può anche non lasciare traccia di sé, la chiusura con le vere immagini degli scontri di Charlottesville e con i veri proclami di David Duke (già al centro del documentario L'anima nera di Donald Trump) arriva dopo due ore di narrazione satireggiante e temeraria, e suona come l'esame di fine corso di un professore che vuole capire se i suoi studenti sono stati attenti.

Quello a cui ci chiama Spike Lee è un risveglio, parallelo a quello del protagonista che progressivamente apre gli occhi su un mondo che conosceva ma solo superficialmente e sicuramente meno traumatico – ma non per questo meno efficace – delle incisive prese di coscienza presenti nei capisaldi della sua filmografia, quando l'urgenza del messaggio si rifletteva in uno stile urlato e polemico. La formula dello Spike Lee joint viene qui attualizzata, riformulata e (per i detrattori) semplificata, per essere messa al servizio di un disegno più ampio: oggi c'è un movimento artistico di supporto che porta a Moonlight di Barry Jenkins, a Get Out – Scappa di Jordan Peele (produttore non a caso proprio di BlacKkKlansman), a I Am Not Your Negro di Raoul Peck. E anche, ovviamente, a canzoni – e a video – come This is America di Childish Gambino. Se Spike Lee fa un passo indietro è perché in realtà fa un passo avanti, con la consapevolezza di chi accetta un nuovo importante ruolo: non più la prima linea solitaria ma la retroguardia condivisa, da nume tutelare di un gruppo coeso che punta deciso al rinnovamento del Black Power e del Black Cinema.