TRAMA
Uno sguardo sul vero Charles Manson, il famoso psicopatico americano, mediante l’analisi degli infami delitti perpetrati dalla Manson Family visti attraverso gli occhi di Karlene Faith, ricercatrice che lavora con tre giovani donne, entrate a far parte della setta dopo aver subito il lavaggio del cervello. Condannate alla pena di morte per il coinvolgimento nei crimini durante i quali furono assassinate nove persone, la loro pena fu in seguito convertita in ergastolo. Il film è una narrazione incentrata sul tentativo da parte di Karlene Faith di rieducare le tre donne, e sulle loro trasformazioni mentre lentamente comprendono l’efferatezza dei crimini commessi.
RECENSIONI
Si erano un po’ perse le tracce di Mary Harron, salita alla ribalta nel 1996 con Ho sparato a Andy Warhol ed entrata nell’occhio del ciclone mediatico con il controverso American Psycho nel 2000. Dopo molta televisione e qualche rara incursione nel cinema (La scandalosa vita di Bettie Page nel 2005 e il goticheggiante The Moth Diaries nel 2011), mettere in scena gli anni di vita del criminale statunitense Charles Manson, che culminarono con l’eccidio di Cielo Drive nel 1969 (quello in cui fu uccisa Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, incinta di otto mesi), pare un approdo naturale. Quello che preme alla regista, più dell’affresco storico, sembra essere sondare e provare a capire cosa possa spingere una persona apparentemente comune, con una vita ordinaria come tante, a perdere il senso della realtà. Il punto di vista è duplice: da un lato la ricercatrice Karlene Faith, autrice anche di un libro che racconta l’esperienza e a cui la sceneggiatura si ispira, che nel 1972 lavora in prigione cercando di rieducare tre giovani donne soggiogate dal presunto carisma di Manson, dall’altro la fragilità e l’ingenuità di Leslie Van Houten, una delle tre ragazze, attraverso cui siamo condotti, in una sorta di rewind esplicativo, all’interno delle dinamiche malate dello Spahn Ranch, la comunità in cui Manson invitava i suoi adepti a combattere il proprio ego (per abbracciare poi il suo) e a lasciarsi completamente guidare in ogni scelta abbandonando del tutto la propria autonomia.
Un cammino che pare razionalmente impossibile da compiersi, ma che la sceneggiatura prova a rendere credibile facendo leva non tanto sul carisma di Manson (Matt Smith ne ha presumibilmente meno del personaggio a cui dà vita), quanto sulle lacune emotive e psicologiche dei suoi seguaci, che vedevano nelle attenzioni del loro leader una risposta al bisogno di essere accettati e amati. La regista non edulcora e non mitizza ma prova a dare corpo alla progressione che porta l’atmosfera love & peace della fattoria a diventare sempre più tossica e manipolatoria. Su Charles Manson le teorie sono le più disparate (c’è anche chi lo crede un frutto della CIA creato per screditare le comunità hippie), la Harron abbraccia quelle più accreditate che lo ritengono un narcisista in cerca di consacrazione universale anche come musicista, frustrato dal mancato apprezzamento da parte del produttore discografico Terry Melcher e quindi vendicativo (la villa luogo della strage era allora proprietà di Melcher). Senza particolari guizzi, ma con una linearità che giova alla comprensione, Mary Harron ci accompagna nella discesa agli inferi dei personaggi. Un percorso che finisce per risultare un po’ scolastico, perché la fine è nota e le tappe non imprevedibili, ma che riesce comunque a turbare per le componenti irrazionali da cui è condizionato. Il finale what, if, che mostra ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato, sancisce ulteriormente ciò che sembra maggiormente premere alla Harron: il potere delle scelte personali nel cammino di ricerca e affermazione della propria identità.
