TRAMA
Vita e morte del boss John Gotti, per trent’anni alla testa della mafia americana.
RECENSIONI
Ci sono progetti che si risolvono in fallimento. Non perché non siano sinceri o sentiti, ma - probabilmente - per l’intervento di una serie di fattori che li portano sulla cattiva strada. Gotti è il film immaginato da John Travolta circa dieci anni fa: annunciato per la prima volta nel 2010, nel corso del tempo è passato sulla carta di regista in regista (Barry Levinson, Nick Cassavetes, Joe Johnston) e di attore in attore (Al Pacino, Lindsay Lohan, Ben Foster) fino alla causa di Joe Pesci contro la produzione, scelto e poi scartato nel ruolo del boss Angelo Ruggiero. Insomma nel 2016, quando sono partite le riprese, il rischio del disastro era ormai dietro l’angolo: ma, manipolando Groucho Marx, non lasciatevi ingannare, è veramente un disastro. Travolta attore e produttore, come detto, suona sincero: tanto che pone la sua vera moglie nel ruolo della moglie, ovvero Kelly Preston nella parte di Victoria Gotti. Un primo problema riguarda la scrittura (Lem Dobbs e Leo Rossi): il boss Gotti è l’ennesima figura post-scorsesiana, goodfella braccato dalla legge e amato dai vicini, che apre e chiude la sua storia perfino guardando in camera, rivolto agli spettatori sullo skyline di New York. Raramente, a memoria, si è visto qualcosa di così vecchio nel cinema degli ultimi anni. Gli sceneggiatori non riescono a ravvivare il personaggio e forse non lo vogliono neanche: la parabola sul mafioso è infarcita di topos e stereotipi, dall’avversione macchiettistica alle forze dell’ordine (vietato nominare un poliziotto) al rapporto padre-figlio («Ti parlo come padre, non come boss»), dagli omicidi di prammatica fino alla prigione che rende uomini.
La seconda nota dolente sta nella regia: Kevin Connolly si rivela davvero una scelta troppo impersonale. Pensato evidentemente per lasciare il campo al Travolta “attore-autore”, egli non sa movimentare alcuna situazione, bensì il contrario: anche le numerose esecuzioni che si prestavano al caso finiscono in soluzioni ovvie, sequenze telefonate e addirittura un po’ confuse, in cui non è immediato il ruolo dei vari personaggi sulla scena. Poi c’è il problema principale: John Travolta. Il divo del New Jersey, (quasi) sempre in campo, passa dal 1973 al 1999 invecchiando o ringiovanendo per necessità, in modo chiaramente posticcio, postulando dall’inizio un teorico fascino del criminale che però è solo presunto, non si traduce mai nel “concreto” dell’immagine. Il fatto paradossale è che Travolta gigioneggia troppo poco: dopo la notevole interpretazione dell’avvocato Shapiro nella prima stagione di American Crime Story, qui non riesce a rendere metacinematografica l’esecuzione di se stesso. D’altronde in cabina non c’è Ryan Murphy, troppo sciatta la confezione per elevare “Travolta che fa Travolta” al cubo. E così il posticcio, la smorfia, la mascella restano tali e inchiodate al primo grado, senza una seconda lettura possibile. Ricorda Black Mass - L’ultimo gangster, in cui Johnny Depp tentava (e falliva) un’operazione simile cucita sul boss James Bulger. Problema nel problema il make-up (oltre trenta nomi accreditati), a dir poco pasticciato, che tocca la comicità nell’imbiancamento di Spencer Lofranco come John Jr., con effetto “giovane vecchio”.
Gotti è insomma profondamente sbagliato: Travolta non sfiora l’autoreferenzialità consapevole di un Tom Cruise, ma non diventa neanche abbastanza scult da innescare il guilty pleasure. Il giudizio si applica solo a questo film, naturalmente, non all’attore che portiamo nel cuore.
