Fantascienza

GAGARIN, MI MANCHERAI

NazioneItalia
Anno Produzione2018
Durata20'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

“In un mondo dove la natura si presenta impervia e ostile, un uomo e una donna vivono come sopravvissuti all’estinzione della specie. Lavorano come contadini, affrontano docilmente la fatica, il silenzio, l’esistenza. Spinto dal desiderio di altrove, l’uomo si rifugia nella sua immaginazione. Visita i villaggi abbandonati, raccoglie rottami e progetta improbabili macchine volanti. La donna lo osserva da lontano, ma resta al suo fianco, con l’abnegazione e la cura che si deve a chi forse le appare come un pazzo. Almeno finché dal cielo qualcosa precipita al suolo, e irrompe nella loro vita. Un ospite inatteso, che li costringerà a interrogarsi su identità, realtà e desiderio, e sull’atto stesso di immaginare” (dal pressbook).

RECENSIONI

Con Gagarin, mi mancherai, premio alla Migliore Regia nella selezione di corti italiani della Settimana Internazionale della Critica di Venezia 75, il cinema italiano vede finalmente affacciarsi sulla scena ufficiale una personalità registica con cui dovrà fare i conti nei prossimi anni. Lasciatemelo dire: si tratta di un piccolo miracolo (totale indipendenza produttiva, distanza siderale dalle cenciose logiche "cinematografare", padronanza assoluta della tecnica priva di feticismo tecnologico) che configura uno spazio inedito nel panorama nazionale. In uno scenario sempre più marcato dal cosiddetto "cinema del reale", specie di riserva protetta in cui annoverare indistintamente sguardi più o meno strutturati o destrutturati, il cinema di De Orsi sceglie al contrario una strada tutta sua, distante tanto dalla seduzione pseudodocumentaristica (come se la realtà non fosse già intrinsecamente un prodotto costruito) quanto dalla narrazione didascalica (altra rete di sicurezza allegramente strangolante). Lasciar parlare le immagini senza costringerle in uno schema predefinito, in programma di storytelling (è così che oggi, con vigliacco gergo aziendale, viene etichettata la pratica del narrare), fare del film un luogo di libertà per lo sguardo e non un carcere di cornici: ecco che cosa si produce nei lavori di De Orsi da Inassenza a Gagarin, mi mancherai, passando per Sete rimane sete (diretto insieme a Nicola Pertino ed Efisio Scanu), che per il sottoscritto rappresenta il cortometraggio più incisivo di quella che si potrebbe arbitrariamente definire una "trilogia della mancanza".

Ciò che colpisce maggiormente del cinema di De Orsi - e di Gagarin, mi mancherai in particolare - è proprio la sua elasticità semantica, la sua plasticità narrativa, la suscettibilità di letture divergenti e non esclusive. Non si tratta di semplice ambiguità, quanto, più precisamente, di una vocazione all'apertura, alla sfida con la materia messa in scena da giocarsi insieme allo spettatore. Non al di sopra dello spettatore, stare attenti, ma accanto a lui: parità dello sguardo, insomma. Ogni suo lavoro è un catalogo di rischi sempre a un passo dalla voragine dell'enigma, mai sottomesso alla tirannia dell'utile: "Per dirla con Herzog credo che il cinema sia un processo di conquista dell’inutile. Un gesto inutile in grado di produrre senso nello spettatore e nella vita di chi lo realizza", dichiara De Orsi nel pressbook. Ecco la parità dello sguardo, la necessità di condividere l'orizzonte di attesa con lo spettatore senza imporre direzioni di marcia prestabilite (ancora De Orsi: "I piedi sono i primi occhi attraverso i quali immagino una storia. È attraversando uno scenario che la natura mi rivela il suo potenziale narrativo"). In principio è lo spazio. E in Gagarin, mi mancherai, la cui sinossi non è che un'ipotesi di attraversamento del testo, la narrazione diviene, proprio come in Sete rimane sete, il luogo in cui si depositano le impronte di un percorso possibile, un percorso che è invito all'esplorazione, alla ricerca inesausta delle vie di fuga. Da un presente dolcemente rinunciatario verso un ignoto che è pura avventura dei piedi e dello sguardo.

LINK PER LA VISIONE: La quiete (2001); Inassenza (2012); Sete Rimane Sete (2017)

INTERVISTA A DOMENICO DE ORSI

Parto dalla domanda più scontata: vedendo i tuoi lavori, a risaltare con maggiore evidenza è la totale estraneità alla grammatica narrativa convenzionale. Quanto incide l'indipendenza produttiva in questa libertà espressiva?

Non ho mai lavorato con un produttore, quindi non lo so. Credo che le modalità di produzione di un film siano esse stesse il film perché ne determinano il linguaggio. Per questo, come regista, trovo fondamentale acquisire consapevolezza della produzione e farne una fase del processo creativo. È diffusa l'idea che i limiti della libertà espressiva siano imputabili alla scarsa fiducia dei produttori a percorrere strade meno battute. In questo c'è una parte di vero ma ho il sospetto che le maggiori responsabilità siano imputabili agli autori stessi. Non esiste un produttore che limiti la libertà di espressione, esistono registi che scelgono di farsela limitare.

Il gruppo di lavoro mi pare una componente non secondaria della vostra casa di produzione: come si è sviluppata questa forma di cooperazione?

Con le stesse modalità con le quali un gruppo di amici si organizza per andare a giocare a calcetto. Ma, con l'eccezione del direttore della fotografia Sergio Grillo, promessa non mantenuta del calcio Dauno, noi siamo tutti schiappe a calcetto. Questo per dire che la logica della programmazione ci è abbastanza estranea, ci appartiene maggiormente quella del gioco. In alcuni momenti sul set sperimentiamo il passaggio dall'individualità ad una sorta di intelligenza collettiva al servizio del film. Sono convinto che questo accada solo in virtù delle qualità specifiche delle persone che costituiscono la nostra squadra e per questo motivo faccio molta fatica ad immaginare un gruppo di lavoro diverso. L'incontro, e le misteriose alchimie che esso determina, è centrale. È molto diffusa l'idea che il parametro della professionalità sia determinante nella realizzazione di un buon film. Il feticcio della professionalità però rischia di soffocare quell'aspetto ludico che credo sia il cuore pulsante del processo creativo. Ciò detto, noi siamo molto bravi a fare le cose che serve saper fare per mettere in piedi un film della pre alla post produzione.

I tuoi corti mi sembrano sottrarsi nettamente alla lettura univoca e alla decodificazione immediata, reclamando al contrario un processo d’interpretazione e sollecitando visioni reiterate: quanto c'è di pianificato in questo passaggio dalla logica del prodotto a quella del progetto?

A me il cinema come intrattenimento non interessa. È un mio limite. Penso al cinema come ad uno strumento per porre problemi, osservare la realtà e districarsi nel senso. Ma il cinema è essenzialmente immagine e la sua ontologia racchiude ai miei occhi sempre un mistero, da qui la stratificazione del senso, la poliedricità semantica, il rifiuto a farsi interpretare in maniera immediata. Sembra un processo distante dall'esperienza comune, eppure a me appare la più comune fra le esperienze qualora si pensi allo smarrimento che ognuno sperimenta ogni notte sognando. Quindi trovo abbastanza spontaneo lavorare alla costruzione di oggetti che reclamano attenzione. Chi è che svegliandosi da un sogno non si chiede: ma cosa ho visto? Che voleva dire?

Come concepisci il ruolo dello spettatore durante la lavorazione dei tuoi corti?

Finché non avrà raggiunto la retina dello Spettatore il film resterà incompleto. Allo stesso tempo non dedico molta attenzione allo spettatore durante la lavorazione. Pubblici ne esistono molti e questo mi porta idealmente a sentire che il rapporto che cerco è sempre quello di uno a uno. Se cerco la mia voce e per parlare a "te". È qualcosa che vorrei accadesse nell'intimo. Come quando per la prima volta vidi Nostalghia di Tarkovsky vivendolo come se stesse parlando a me personalmente. Ogni tanto mi capita di scoprire che qualcuno ha visto il mio film: per me è fondamentale parlare di quello che pensa, dell'esperienza che ha vissuto.

Nella mia recensione, propongo definizione un po' pomposa di "trilogia della mancanza" per Inassenza, Sete Rimane Sete e Gagarin, mi mancherai: trovi che sia riduttiva o che i tre titoli abbiano un altro genere di connessione interna?

Quando ne avrò uno proporrò il quesito al mio analista. Nel primo e nell’ultimo la mancanza è espressa dai titoli stessi, al centro la cuspide di ciò che rimane. Ma quali sono i resti? E soprattutto di quale corpo? Forse tutti e tre questi lavori stringono il cappio intorno alla condizione di solitudine dei nostri corpi gettati nel divenire e abitati da un inesausto desiderio di altrove.

Nell'intervista di qualche anno fa, ti definivi essenzialmente un montatore. È cambiato qualcosa in questi anni? Qual è il peso specifico del montaggio nei tuoi lavori più recenti?

Montare un film continua ad essere il vero momento in cui scrivo il film. Sete Rimane Sete è un film di montaggio. Non esisteva nessuna ipotesi di racconto strutturato mentre giravamo. Anche Gagarin, mi mancherai l'ho montato io, ma forse è più una firma tecnica. Il suo montaggio creativo è stato lungamente e scontrosamente dibattuto con gli altri suoi padri, Efisio Scanu, l'art director, Sergio Grillo il direttore della fotografia, Nicola Pertino l'operatore e Angelo Amoroso d'Aragona il mio “cattivo” maestro.

Se in Gagarin, mi mancherai mi è stato impossibile non pensare ad alcuni riferimenti cinematografici forti (Tarkovskij, Herzog), Sete Rimane Sete mi è invece parso affermare uno stile assolutamente singolare. M'inganno?

Singolare perché plurale. È un film raccolto per strada durante un viaggio fra amici. La camera passava di mano in mano seguendo visioni singolari, emozioni del momento, che poi si sono ricomposte al montaggio trovando nel testo scritto da Angelo Amoroso d'Aragona e nelle musiche composte da Clelia Patrono solo una delle possibili strade narrative suggerite dalle immagini.

Sono certo che tu conosca Il trascendente nel cinema di Paul Schrader. Alcune tecniche di ritenzione che, secondo Schrader, connotano lo stile trascendentale mi sembrano ravvisabili anche nei tuoi corti: penso alla distillazione delle componenti funzionali all'intreccio e, di contro, all'ampio spazio assegnato alle durate e, soprattutto, alla sobrietà drammaturgica (una sobrietà che in Gagarin, mi mancherai rasenta il mutismo). Qual è il mistero a cui tendono i tuoi lavori?

Non sono questi anni favorevoli allo stile trascendentale. Siamo così ossessionati dallo storytelling che ormai nelle storie ci nuotiamo dentro.  Anche mangiare un piatto di polpette non ha valore se non se ne fa una storia. Io invece cerco una stilizzazione consapevole della realtà ed elimino la sua rappresentazione: non è il discorso metaforico ad attivarsi ma quello correlativo oggettivo. Il problema è sempre quello del rapporto tra l'immagine e la realtà che nell'incertezza determina una mistica dell'assenza. Per questo spesso nei miei lavori i personaggi guardano grandi spazi "vuoti". Sul mistero non si può dire assolutamente nulla. Non posso, attraverso il mio lavoro informare circa questo mistero, posso solo esprimerlo.

Quanto è cambiato, se è cambiato, il tuo approccio al cinema in questi anni?

È sempre lo stesso approccio da cinefilo pigro. Non sono un divoratore di film. Lo sono stato ai tempi dell'Università a Napoli. Quello che sicuramente ho maturato negli ultimi anni è un grande rispetto per chiunque provi a fare cinema, anche in modi molto distanti dal mio, purché abbia voglia di litigare.

Per quanto la motivazione mi suoni alquanto surreale (Perdersi. Trovare luce e terra, e acqua. Il cielo è blu, ci si prende cura delle galline e forse, solo forse, significa avere qualcosa da fare, lavorare, progettare, costruire. La ricerca che questo film sviluppa è tutta esteriore, rivolta al mondo e alle fantasie che evoca. La sua curiosità non richiede risposte, sebbene ce ne siano alcune), il premio per la Miglior Regia della Settimana Internazionale della Critica mi pare un riconoscimento indiscutibilmente significativo. Quale valore possiede ai tuoi occhi?

È un riconoscimento che mi responsabilizza e mi spinge a continuare sulla strada della ricerca. Di che cosa lo capiremo strada facendo. I lungometraggi in concorso alla Settimana della Critica erano tutti film impressionanti. Fanno capire quanto il cinema sia incredibilmente vivo in giro per il mondo. Tutti i giovani autori dovrebbero vedere i film della SIC perché insegnano a non avere paura.

Domanda conclusiva di rito (perdona la banalità e la brutta espressione): lavori in cantiere?

Il cantiere è molto disorganizzato in queste settimane. C'è un lungo in gestazione che cercherò di girare in tre diversi paesi europei. Mentre a febbraio un nuovo esperimento: la squadra si allarga grazie al coinvolgimento di un diverso direttore della fotografia, Giuliano Monni, e gireremo un corto fra Napoli e la provincia di Viterbo, prodotto della napoletana Studio8 e da Purple Neon Lights. Una sorta di horror intimista, perdona tu la banalità e la brutta espressione.